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Sembra che tutto sia cominciato mercoledì 15 novembre: le autorità turche hanno proibito lo svolgimento di un festival tedesco del cinema LGBTQIA (lesbiche, gay, bisessuali, trans, queer, intersessuali e asessuali) ad Ankara nei due giorni successivi, adducendo come motivazioni per l’improvviso divieto la sicurezza pubblica e il rischio terrorismo [Reuters].

Censura a 360 gradi

Apparentemente le ragioni dichiarate potevano avere un senso: un gruppo locale coinvolto nell’organizzazione, Pink Life QueerFest (Festival queer vita rosa), ha notato che l’evento era stato attaccato sui social media. Ma “dichiarare che le immagini proposte fossero provocatorie o fatte oggetto di attacco da parte di gruppi terroristici non fa che legittimare questi ultimi e le istituzioni che promuovono odio e vedono nella nostra esistenza una sfida”, ha dichiarato l’associazione in un comunicato che si chiudeva con una frase polemica: “Si agisce così per privarci dei nostri diritti costituzionali in nome della ‘protezione'”.

In realtà tutto è cominciato molto prima, anche prima del fantomatico tentato golpe del luglio 2016, perché da due anni la parata del Pride viene vietata [Il Grande Colibrì], malgrado nel paese non ci siano leggi che puniscono l’omosessualità. Ma quello delle ultime due settimane è un succedersi di piccole notizie ed eventi che potrebbero portare a cambiare perfino le leggi che non proibiscono i rapporti omosessuali.

Arrampicata sugli specchi

Dunque, dopo il divieto del festival tedesco e la relativa protesta tedesca, con esposizione della bandiera arcobaleno sul balcone dell’ambasciata di Berlino ad Ankara [Hurriyet], domenica scorsa nella capitale è entrato in vigore  il divieto di qualunque manifestazione LGBTQIA, che si tratti di manifestazioni, mostre o proiezioni. Questa volta la motivazione ufficiale, pur non mancando di citare la sicurezza, è stata diversa da quella offerta per censurare l’evento cinematografico tedesco: “Al fine di garantire pace e sicurezza nella nostra provincia, e considerando la sensibilità del pubblico, gli eventi LGBT come cinema, spettacoli teatrali, pannelli, mostre e interviste sono vietati fino a nuovo avviso”, recita il comunicato dell’ufficio del governatore [Hurriyet].

L’ufficio del governatore tenta di negare che si tratti di censura: “Una parte della società con differenti qualità in termini di classe sociale, razza, religione, setta o regione potrebbe incitare esplicitamente un’altra parte a rancore e inimicizia, ponendo un immediato e chiaro rischio in termini di sicurezza pubblica”, recita ancora il comunicato ufficiale in un imbarazzante esercizio di arrampicata sugli specchi.

“Questo è solo l’inizio”

Tra le persone e i gruppi LGBTQIA turchi c’è dispiacere, ma questa involuzione era in qualche modo nell’aria. “Ho partecipato al Gay Pride del 2009 a Istanbul – racconta Idil – e l’atmosfera era pacifica. Ma negli ultimi anni era diventato un percorso ad ostacoli della polizia. Gli attacchi brutali erano il primo indizio di quello che avremmo sperimentato successivamente, quindi temo che questo sia solo l’inizio”.

La scorsa settimana – ricorda The Guardian – il presidente Recep Tayyp Erdogan ha ribadito che lasciare libertà alle persone gay “è contro i valori della nostra nazione”, ripetendo gli stessi concetti espressi all’inizio dell’anno per vietare per il terzo anno consecutivo il Pride di Istanbul. Idil teme che il pregiudizio diffuso dal nazionalismo faccia sempre più breccia: “Non solo le persone ignoranti, ma anche quelle istruite ormai pensano che essere gay non sia naturale, e quando vogliono umiliare qualcuno usano facilmente la parola ‘ibne’, che significa gay in turco”.

Lo stato chiude gli occhi

Nemmeno Necmiye è sorpreso del corso degli eventi, ma pensa che la posizione anti-laica del governo sia estremamente pericolosa: “Alla gente è stato detto che la laicità è nemica dell’Islam e dei suoi valori. Ma le persone LGBTQIA sono cittadini di questo paese ed è dovere dello stato proteggerle. Se esiste un problema di omofobia, bisogna educare le persone, non mettere a tacere il movimento LGBTQIA”.

Leyla pone l’accento sul fatto che in questo modo di fatto si impedisce alle persone di partecipare a qualunque iniziativa inclusiva: “Nessuno vuole più partecipare a un evento LGBT o protestare, nessuno vuole problemi per la propria reputazione ed è più disposto a mettere il proprio nome o il proprio volto per un’iniziativa. E così i crimini d’odio diventano più comuni, tanto tutti vedono che davanti ai giudici i colpevoli non sono mai condannati come meriterebbero secondo la legge”.

Scappare o resistere?

Molti altri ragazzi hanno risposto alle domande del Guardian spiegando che vogliono andarsene dalla Turchia, come hanno già fatto molte persone LGBTQIA: Sune ricorda che in un sondaggio sul vicinato compiuto nel paese una percentuale tra il 90% e il 95% ha risposto che non vorrebbe avere vicini omosessuali, per cui la morsa si sta chiudendo e non c’è ragione di restare.

Ma se le singole persone sembrano particolarmente sconfortate, c’è comunque chi vuole continuare a lottare. Le associazioni LGBTQIA (oltre un centinaio nel paese, contando i gruppi universitari) sono sul piede di guerra e non sono disposte a lasciarsi intimorire. I principali gruppi di Ankara hanno avviato procedimenti legali e ricorsi contro il divieto e intendono continuare a pianificare i loro eventi per il prossimo anno, come se quel bando non esistesse [DW]. Ma non potranno fare molto se la società civile ignorerà le loro richieste e se la loro mobilitazione resterà isolata. E forse anche la comunità mondiale dovrebbe sentirsi chiamata in causa.

 

Michele
©2017 Il Grande Colibrì

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