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Il termine “intersessuale” è usato per indicare la molteplicità di condizioni in cui si trova chi nasce con un apparato riproduttivo e/o un’anatomia sessuale e/o una situazione cromosomica che variano rispetto alla tradizionale definizione di femminile e maschile.

Bella definizione, non c’è che dire, rinvenibile ovunque. Fin qui nulla da eccepire, si tratta di un concetto non eccessivamente difficile da comprendere. Vivere l’intersessualità è un’altra cosa. Soprattutto è diversa la realtà, quella della vita che profondamente, emotivamente e sostanzialmente si è costretti a sopportare quando si diventa attori protagonisti di questa particolare rappresentazione.

Immaginiamo l’attesa di una futura madre e con piglio sociologico compiamo una rilevazione, scopriremo che la domanda, banale e scontata, ruota attorno al sesso del futuro nascituro. Una domanda che in sé è carica di aspettative e che pone una serie di continui investimenti e disinvestimenti… a volte, in certe realtà, può addirittura divenire motivo di vanto, riscatto, ostentazione.

Si, in quella stereotipata giostra dell’ordinario, l’importante è avere un sesso, rientrare in una delle classificazioni che permette di avere un ruolo nell’olimpo del sociale. La differenza sta nel poter esprimere una lettera: M o F, unica via che può rendere possibile l’accesso alla quotidianità e a quel senso di appartenenza (ma poi appartenere a chi?).

Come liberarsi del perno cui tutto ruota attorno? Non sarebbe sufficiente un temporale liberatorio, anzi l’acqua, in quel caso, non farebbe altro che consegnare allo scoperto quell’ambiguità che lo “strabismo” della società conservatrice ancora non consente di superare poiché la persona, i suoi sentimenti non sono più importanti di un’etichetta sessuale.

Il tempo è un fattore decisivo in questi casi. S’interviene in genere entro il primo anno di vita e, spesso, si tende a scegliere la declinazione femminile, ma come potremo mai sapere ad un anno di vita cosa svilupperà quel bambin*?

Qualcuno potrebbe chiedere: perché spingere proprio verso il sesso femminile? La verità è la stessa che spinge l’uomo al concetto della sopravvivenza, ossia la possibilità, laddove presente, di conservare le ipotetiche capacità riproduttive. Amor di specie…

Ma chi è protagonist* della vicenda sarà content* di questa scelta, di aver contribuito ad offrire il proprio contributo all’importante causa della continuazione della stirpe? Non lo so e non so nemmeno cosa può pensare chi non è stato preparato all’alterità, al confronto con gli altri quando guarderà la propria sessualità e penserà di essere forse sbagliato… Lo posso immaginare… L’immaginazione, però, è esente dal dolore.

Questo l’ho compreso in un’intervista che ho avuto modo di leggere navigando in rete, dove una ragazza intersessuata guardando il suo corpo pieno di segni e di evidenti passaggi chirurgici, afferma (non letteralmente): dovevo essere davvero mostruosa se il risultato che vedo è il frutto della correzione.

Non c’è evidentemente il supporto per il post, necessario, tremendamente utile per chi non deve scrivere di queste cose ma lo concretizza in quell’immagine speculare che si riflette in un qualsiasi specchio. Siamo attenti o solo tremendamente, egoisticamente crudeli?

Ma poi lo sapranno tutti quello che è accaduto? O una specie di protezione eviterà di raccontare l’irraccontabile, salvo poi cadere nella mancata risoluzione delle problematiche connesse alle identità di genere che potrebbero giungere?

Ho letto una storia: vera, toccante, profonda, spietata… spietata come lo può essere solo il genere umano eterosessista, patriarcale, predominante. Essa è meritevole di attenzione, brutale anche nella sua definizione, tipica da ufficio di protocollo: caso Joan/John [1], così come voluto dalla rete BBC. Judith Butler, invece, preferisce identificarla come la storia di David Reimer, attribuendo a quel nome l’unico baluardo di dignità a una vita che del misconoscimento del suo essere ne ha fatto la ragione della propria esistenza.

La storia ha inizio quando ad un bambino, a diciotto mesi, gli viene accidentalmente bruciato e staccato il pene durante un intervento chirurgico necessario per correggere una fimosi. Dopo un anno, i genitori, ancora frastornati, ascoltano un’intervista di John Money che, affrontando il dibattito sulla chirurgia transessuale e intersessuale, sostiene che se un bambino viene sottoposto a un intervento chirurgico e da lì ha inizio un processo di socializzazione con un genere diverso da quello originariamente attribuito alla nascita, lo stesso è in grado di poter vivere felicemente.

Money, contattato dai genitori disperati, consiglia di procedere all’asportazione dei testicoli e, seppur nelle more di un intervento da completare, preparare la nascita di un nuovo essere: Brenda. Crescere come donna sembra facile visto l’apporto di John Money e il gruppo dell’Istituto d’identità di genere da lui diretto [2]. Eppure, il destino ha in serbo un ulteriore colpo di scena.

Tra gli otto e i nove anni Brenda desidera una mitragliatrice giocattolo; tra i nove e gli undici la stessa è consapevole di non essere una ragazza e preferisce urinare in piedi (attirandosi al contempo l’odio delle altre bambine). Ma Brenda va oltre e, nonostante l’età, chiede apertamente di non portare a compimento l’operazione. Gli psichiatri capiscono che Brenda non accetta se stessa e che quel bambino trasformato dalla medicina è in realtà ancora un maschio nella sua psiche. Il consiglio è cambiare percorso.

Tra i quindici e i sedici anni Brenda inizia un nuovo percorso e la sua vita inizia a strutturarsi come quella di un maschio. Il punto fondamentale è la richiesta e la conseguente costruzione di un fallo [3]. Nasce David Reimer [4].

Money non è stato mai veramente onesto, ha parlato di “buon esito” e ha utilizzato anche l’ulteriore cambiamento di David per dimostrare ai media che ciò che è femminile o ciò che è maschile può essere mutato, dimostrando la facile plasmabilità dei soggetti. V’è da dire, invece, che Brenda ha deciso di diventare David nonostante gli sforzi di Money che, a base della sua terapia, ha posto lunghi colloqui con transessuali, ha narrato edulcorati racconti che mostrano il vantaggio di essere donna [5].

La storia di John/Joan è stata altresì letta come un racconto avente la forza dell’allegoria [6]. Quale allegoria? Quale finale?

Al momento l’unica sofferenza è quella di un accanimento medico che si abbatte sul corpo in nome del raggiungimento di una maledetta normalità. David è un uomo nato uomo, castrato dalla classe medica, reso femminile dal sistema psichiatrico e poi fatto divenire nuovamente maschile. Ma quel maschile è frutto di una falsa rappresentazione data dalla somministrazione di ormoni, di un incessante intervento sul corpo, lo stesso corpo che non ha più memoria o, addirittura, ne ha troppe.

Quali sono realmente le riflessioni di David? La normatività del genere ha reso giustizia ai sentimenti di David? Probabilmente no.

David in realtà ha cercato l’amore degli altri, ha cercato di amare, ha sperato che il suo pene non diventasse ostacolo al ricevere amore. Egli ha gridato il senso della sua vita indagando dal profondo di se stesso, mentre la classe medica infieriva sulla superficie epidermica della sua esistenza.

David è disarmato davanti agli studiosi che associano la sua esistenza al pene. In fondo crede davvero di avere diritto a essere valorizzato per qualcosa che va oltre i suoi genitali. Nella sua lotta irriconosce la norma, cerca di andare al di là della stessa. Eppure non è stato così.

Il 4 maggio 2004 David si è tolto la vita. Non aveva quarant’anni.

Nel fragoroso silenzio di questo gesto, nella sconfitta delle scelte intraprese, emerge chiaramente che le norme possono stabilire come debba essere una vita umana, ossia se meritevole di riconoscimento, dignità e sostegno. Evidentemente quelle norme non hanno fornito all’esistenza di quel Bambino prima, di Brenda dopo e di David poi, un valido e utile appiglio per voler continuare a credere che quel progetto di vita potesse essere degno di compimento.

Preferisco concludere riprendendo un passo a me molto caro della straordinaria Judith Butler: “È possibile immaginare un mondo in cui le persone sessualmente ibride possano essere accettate e amate senza doversi trasformare in una versione del genere conforme alla norma o socialmente più coerente?” [7].

 

Gianfranco
Gianfranco Meneo è insegnante e saggista.
©2011 Il Grande Colibrì
[*] Questo contributo in parte riprende e approfondisce quanto da affrontato nel testo in G. Meneo, Trangender. Le sessualità disobbedienti, Palomar, Bari 2011.
[1] Judith Butler, La disfatta del genere, traduzione di P. Maffezzoli, Meltemi, Roma 2006, pp. 85-102.
[2] Money era un fautore della neutralità del sesso, per lui, era sufficiente che l’allevare i figli coincidesse con il sesso assegnato per evitare che si verificassero problemi.
[3] Dalle fonti sappiamo che le urine sono espulse dalla radice, che non ha eiaculazione seppur prova o può provare un certo piacere. Del resto il compimento di questi interventi non si pongono mai il dubbio se i destinatari dello stesso saranno poi in grado di provare piacere sessuale un giorno. Si confonde l’estetica con l’essenza dell’esistenza stessa.
[4] Ed è per questo che Butler preferisce rivolgersi a David scegliendo il nome che egli stesso ha individuato nel corso del suo travagliato esistere.
[5] Tralasciamo gli approcci che sono stati chiesti al fratello gemello di Brenda di simulare rapporti sessuali con la stessa.
[6] N. Angier, Sexual Identity Not Pliable After All, Report Says, in «New York Times», 14 marzo 1997.
[7] La disfatta del genere, cit., p.93

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