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“Oggi la guerra e il crimine sono onnipresenti. Poteri egemonici attaccano le forze democratiche e libertarie che favoriscono l’umanità e la diversità religiosa ed etnica. Questa demolizione sociale colpisce più duramente donne e bambini. Contro queste politiche di annientamento il nostro dovere più sacro è continuare a costruire Jinwar”: con queste parole è annunciata la creazione di un villaggio abitato solo da donne nel Rojava, la regione nel nord della Siria di fatto autonoma e controllata dalle forze curde. “Ricostruire le nostre case è la risposta più significativa alle forze della distruzione. Costruire un villaggio basato sulla prospettiva femminile in Rojava è un passo importante nella storia della lotta delle donne per la propria emancipazione” proclama ancora il comunicato.

Separatismo femminista

Se l’esperienza delle comunità solo femminili sembra tramontare in Occidente, dove sopravvivono poche tra le esperienze nate nel secolo scorso, come lo Sugarloaf Women’s Village in Florida o la comunità lesbica di Alapine in Alabama, questa idea sembra rifiorire nel sud del mondo, come nel villaggio per sole donne di Umoja, in Kenya, che non a caso è stato preso a modello dalle fondatrici di Jinwar. Il separatismo, così spesso vituperato e deriso nel nord del pianeta, è particolarmente apprezzato dalle femministe dei paesi dove la violenza maschile è più evidente, e in cui la lotta al patriarcato inevitabilmente fa rima con anti-capitalismo ed ecologismo.

Il motivo per cui oggi nasce Jinwar è lo stesso che ha portato alla creazione di Umoja nel 1990 o di tante esperienze simili nell’Europa del Settecento, come racconta Rachel Hewitt in “A Revolution of Feeling: The Decade that Forged the Modern Mind” (Una rivoluzione del sentimento: il decennio che ha forgiato la mente moderna; Granta Books 2017, 560 pp.): la necessità di fuggire dalle violenze o dai matrimoni forzati, la volontà di essere autonome e non soggette a genitori e mariti, il sogno di costruire un’alternativa al mondo tragico che ci circonda.

Maschilismo e capitalismo

Jinwar sarà proibita agli uomini, ma sarà aperta a tutte le donne, senza discriminazioni religiose o etniche. Le portavoce del progetto ripetono continuamente questo concetto: il villaggio non nasce per cambiare il destino delle donne curde, ma per contribuire a riscrivere la storia delle donne di tutto il pianeta. Più di 200 persone potranno abitare le 30 case in costruzione, a cui si aggiungeranno una scuola, un’accademia di scienze femminili, una clinica specializzata in fitoterapia e medicina naturale, un museo di storia delle donne e gli uffici amministrativi. Ma forse l’edificio più significativo sarà il deposito dei prodotti alimentari: il cibo sarà distribuito a ciascuna secondo i suoi bisogni.

“Vivremo lontane dalla violenza del capitalismo”, riassume a Daraj Nujin, coordinatrice curdo-tedesca del villaggio, che aggiunge: “Le donne acquisiranno le conoscenze per condurre una vita semplice, lontana dalle città, dal cemento, dall’avidità degli uomini, dalle imprese capitalistiche che hanno distrutto l’essere umano e che l’hanno trasformato nell’ingranaggio di un grande meccanismo che gira giorno e notte per alimentare i profitti”.

Un’altra coordinatrice, Raman Mardin, spiega che gli unici maschi ammessi a Jinwar saranno i figli delle donne che decideranno di abitarci e che piano piano, generazione dopo generazione, il villaggio ritroverà un suo equilibrio tra i generi: “Capiranno le regole crescendo. Avranno diritto a sposarsi e a continuare a vivere nel villaggio. Iniziamo dalla donna perché è la base, ma non significa che cancelliamo l’uomo. L’uomo che vivrà qui in futuro dovrà dimostrare di condividere il nuovo spirito che costruiamo e che è lontano dal potere maschile e dalla mentalità machista che emargina la donna, trattandola come una merce o come un corpo di cui può disporre come gli pare”.

Diritti delle donne in Rojava

Jinwar si basa su molti concetti sviluppati dalla “jineoloji” (gineologia, scienza delle donne), una prospettiva di radicale trasformazione del pensiero scientifico per metterne in discussione quelli che sono individuati come violenti assunti patriarcali e capitalistici e contrapporgli un punto di vista femminile capace di generare pace e uguaglianza e di rivoluzionare la società, la politica e l’economia. Questo discorso ideologico ha ottenuto grande attenzione nel mondo grazie alle Yekineyen Parastina Jin (Unità di difesa delle donne; YPG), l’organizzazione militare curda composta esclusivamente da donne, e alle sue prodezze nella lotta contro Daesh (il gruppo terroristico noto anche come “Stato Islamico”).

Ma in realtà – in una regione in cui le donne hanno un ruolo centrale nelle forze armate, ma in cui una delle poche differenze tra i generi stabilita per legge è proprio la non obbligatorietà del servizio di leva per il sesso femminile – questo discorso di parità radicale si traduce soprattutto in leggi e politiche civili, dal divieto della poligamia e dei matrimoni di minorenni alla scelta di far presiedere ogni organo di governo da una donna e un uomo.

Non è solo propaganda

Di fronte a tutto questo, sembra quasi di assistere a un sogno. Ma non mancano i critici, come il giornalista Rustam Mahmoud, che, parlando di alcuni fatti di cronaca che hanno mostrato come i femminicidi e i “delitti d’onore” rimangano frequenti e spesso impuniti nel Rojava nonostante la severità delle norme giuridiche, scrive su Daraj: “Quello che succede in realtà è che le leggi e i principi sono applicati in modo estremamente limitato, in modo molto selettivo, al punto che molti abitanti della regione pensano che siano utilizzati unicamente contro coloro che non appoggiano l’élite curda al potere, unicamente come strumento di ricatto”. Mahmoud, inoltre, non valuta positivamente il fatto che le organizzazioni femministe sarebbero accettate solo quando concordano con gli obiettivi delle forze nazionaliste curde.

Se queste osservazioni appaiono francamente esagerate, non bisogna comunque negare che contengono elementi di verità da non sottovalutare. Come in ogni situazione, bisognerebbe valutare con attenzione e senza sconti ogni esperienza politica. E ricordarsi che il cammino verso l’uguaglianza è ancora lungo in ogni angolo del pianeta e che proclamare già dei vincitori e delle vincitrici rischia solo di rallentarlo, nascondendo i progressi che ancora bisogna fare. Ma anche che il percorso che stanno affrontando le donne e gli uomini del Rojava non va sottovalutato e anzi offre importanti esempi per  tutte e tutti noi.

Pier Cesare Notaro
©2018 Il Grande Colibrì

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