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Le mie esperienze di discriminazione, disprezzo, esclusione e pregiudizio cominciano presto, essendo cresciuta in una famiglia di Testimoni di Geova, gruppo religioso minoritario in Italia, con cui ho vissuto fino all’età di 18 anni. Nel corso della mia esperienza di studio e lavoro ho intrecciato relazioni con diverse persone appartenenti alla cosiddetta “minoranza”: partiti politici insignificanti, stranieri in Italia di diversa provenienza, rifugiati, clandestini, persone provenienti dal continente africano, persone LGBTQIA (lesbiche, gay, bisessuali, trans, queer, intersex e asessuali).

Tutte queste persone hanno in comune l’esperienza della discriminazione: per motivi di razza, di genere, di orientamento sessuale, di classe sociale o di religione, si sentono schiacciati dal peso del disprezzo e del giudizio altrui. Da loro, lo sguardo degli altri è quasi sempre descritto in modo negativo e tutte le loro azioni sono permeate dall’esperienza di essere minoranza. Tutte queste persone hanno un elenco di storie da raccontare su cosa voglia dire nel concreto vivere nella paura costante del rifiuto e, in alcuni casi, della negazione di alcuni diritti fondamentali.

Islamofobia

Da quando, nel 2010, ho iniziato a camminare sulla via dell’Islam, sono diventata nuovamente parte di una minoranza religiosa, è cominciata una nuova sfida, ma anche un nuovo percorso di ricerca. Gli sconvolgimenti geopolitici degli ultimi decenni, soprattutto nell’area mediorientale e nordafricana, hanno reso la vita dei musulmani, che già vivono la condizione di minoranza, particolarmente complessa.

Poiché l’Islam è spesso accusato di essere incompatibile con i diritti umani e con i valori delle società democratiche, praticarlo come semplice via spirituale, disinteressandosi di questioni socio-politiche, sembra quasi impossibile. L’incomprensione, il pregiudizio, l’esclusione, il disprezzo accompagnano la vita dei musulmani e delle musulmane in modi che possono essere facilmente comparati con gli altri gruppi minoritari e discriminati.

donna musulmana velo rossoEssere minoranza

Ma cosa significa essere minoranza? Significa prima di tutto definire i confini del proprio gruppo di appartenenza, un’operazione all’apparenza semplice. In realtà ogni persona costruisce la propria identità lungo diversi assi: ad esempio, nel definire la mia appartenenza secondo l’asse della cittadinanza italiana, potrei dire di non essere parte della minoranza nel luogo in cui vivo, ma lo sarei se vivessi in Egitto ad esempio. Nel definire la mia appartenenza secondo l’asse della religione islamica, invece, viceversa sarei una minoranza in Italia, ma non in Egitto. Questo ovviamente tocca appena la superficie della questione, assai intricata, che conduce ad una riflessione, ancor più complessa, sul grado di discriminazione ed esclusione delle minoranze.

Dopo anni di relazioni, vissuti e osservazione sull’essere minoranza, mi sono accorta di una tendenza molto comune che definirei ossessione della discriminazione: spesso le persone con una spiccata consapevolezza di sé e del loro posto nella società, tendono ad appiattire tutta la narrazione della loro esistenza su quell’unico tratto identitario e sfera dell’esperienza, senza mai spingersi oltre nell’auto-riflessione.

Se una donna con il velo riceve un voto basso ad un esame universitario o a un’ interrogazione scolastica, sarà di sicuro a causa di un pregiudizio contro l’Islam. Se a una persona straniera viene rivolta la parola in modo sgarbato sarà solo a causa di convinzioni razziste. Se una persona di orientamento sessuale visibilmente non etero, non ha successo in un colloquio di lavoro, sarà solo a causa dell’omofobia diffusa.

Ridotti a oggetti

Uno dei terribili effetti dei discorsi sulle minoranze, delle varie forme di –fobia e di –ismi, è, infatti, la riduzione delle persone a oggetto. Sentendosi costantemente attaccate e giudicate per un particolare motivo, essendo escluse e disprezzate per uno dei loro tanti tratti identitari, finiscono per rafforzare e difendere a tutti i costi il loro diritto a essere gay, lesbiche, africani, musulmani e via dicendo, dimenticando a volte la complessità del vissuto.

cappello spagnolo fez tarbushDiventa difficile distinguere quali siano davvero gli episodi riconducibili a una vera e propria discriminazione ingiusta e quali invece siano inquadrabili secondo altri parametri. Diventa impossibile raccontare di sé, senza porre continuamente l’accento su quel tratto identitario che causa sofferenza. Ci si identifica insomma, con l’esperienza della discriminazione e del disprezzo, che diventa così una gabbia.

Ognuno di noi attraversa spazi sociali molto diversificati, è ogni volta in relazione all’ambiente, a se stesso e agli altri una persona diversa. Sentirsi costantemente vittima di soprusi e ingiustizie crea degli ostacoli alla crescita personale. Alimenta il gioco della discriminazione e dell’odio che ha bisogno di due ruoli ben definiti: coloro che discriminano/odiano contro coloro che sono discriminati/odiati.

Uscire dal gioco

Uscire dal gioco significa analizzare ogni fallimento della nostra vita come un insieme di fattori concomitanti, comuni a qualsiasi essere umano. Significa essere consapevoli della propria esperienza di minoranza, senza eccessi. Uscire dal gioco significa cambiare il nostro modo di incrociare gli sguardi: a volte attiriamo sguardi sul nostro corpo, perché li cerchiamo. In parole semplici: ho paura di essere guardato in modo ostile, e mi guardo intorno con fare sospetto, io guardo e le persone mi restituiscono lo sguardo. Io trovo così, ancora una volta, la prova che il mio corpo è costantemente oggetto di sguardi indagatori. Dimentico che se non ho voglia di essere guardato, devo semplicemente smettere di guardare.

Uscire dal gioco significa aver fiducia nell’altro che vuole aiutarmi, non dando per scontato che siamo sempre al cospetto di potenziali nemici. Uscire dal gioco significa non ragionare più in termini di minoranza o maggioranza ma in termini di gruppi di individui diversi. Uscire dal gioco significa rinunciare all’impulso di creare altre categorie e barriere: “Lei è bianca, ricca e cristiana e quindi razzista” suona allo stesso modo di “Lui è nero, povero e musulmano e quindi pericoloso“. Uscire dal gioco, che è un gioco di potere velenoso, significa scoprire che il bene non proviene da Oriente come il male non proviene da Occidente, semplicemente perché Oriente e Occidente non esistono, ci sono solo gli esseri umani con le loro virtù e le loro debolezze.

Rosanna Maryam Sirignano
©2020 Il Grande Colibrì
immagini: elaborazione da houseoflegacy (CC0) / da pxhere (CC0) / Il Grande Colibrì

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