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Oggi la narrazione dominante sull’Afghanistan ci offre la possibilità di riflettere, ancora una volta sulla nostra visione del mondo, sulle nostre categorie e il modo in cui ci relazioniamo all’altro. “Tragedia senza precedenti”, “I talebani hanno preso Kabul”, “La democrazia ha fallito”, “Pericolo per le donne”, “In arrivo un’invasione di sfollati”… Le pagine dei social si riempiono di immagini, slogan, petizioni, video, informazioni quasi mai verificate. Al bar due persone chiacchierano su possibili scenari futuri, riuscendo a mettere in scena analisi politiche sofisticatissime. Due amiche al parco quasi piangono per le povere sorelle afgane: “Che possiamo fare?” si chiedono. Si fa a gara a chi ne sa di più, si creano fazioni, si litiga.

Da qualche settimana l’Afghanistan è tornato sulle prime pagine dei giornali, incorniciato in una narrazione semplicistica, l’unica che siamo in grado di capire: il rischio di trovare nella notizia del giorno un modo come un altro per intrattenersi e distrarsi nelle noiose giornate di estate è molto alto.

In questa parte di mondo che si chiama Europa siamo nati e cresciuti ed è con questo tratto identitario che ci tocca fare i conti. “L’identità è un elemento che gli esseri umani non possono scegliersi” scrive Shamsia Hassani, l’artista afgana che sta guadagnando molta popolarità in questi giorni. Ci hanno raccontato che l’Occidente è la culla della civiltà umana, dei diritti, della libertà e della salvezza dei popoli. Ci hanno raccontato che la matrice cristiana della nostra cultura evita quello che accade dall’altra parte del mondo a causa dell’Islam, foriero di ideologie politiche violente e repressive.

Ci abbiamo creduto, ci credevo anche io tredici anni fa, tanto che volevo a tutti i costi studiare l’Islam per salvare le donne afgane dal burqa. Ma né ieri né oggi le donne afgane vogliono essere salvate ma, come scrive Igiaba Scego,  “vogliono essere appoggiate nella loro battaglia di autodeterminazione. Non cercano salvatori/salvatrici, ma alleate e alleati. Cercano compagne e compagni”.

Libertà limitata

Il corpo delle donne in questa retorica vuota è ancora una volta usato per semplificare e ridurre la realtà a categorie a noi comprensibili, perché nessuno ha voglia e tempo di andare oltre e approfondire, scoprendo che esistono altre storie. Donne in minigonna simbolo di libertà contro donne in burqa simbolo di oppressione, rappresentano la dicotomia “Occidente progredito” – “Oriente retrogrado”. Nessuno si accorge che in un paese veramente libero e democratico nessun modello culturale verrebbe imposto e le donne in minigonna sarebbero accanto a quelle coperte dalla testa ai piedi con disinvoltura e nessun bisogno di giudicarsi a vicenda.

donna musulmana islam luceMi chiedo allora cosa accadrebbe a una donna in fuga dall’Afghanistan una volta in Italia? Probabilmente quello che accade a tutte le donne musulmane e rifugiate nel nostro paese: sguardi ostili, emarginazione sociale, lunghe attese per ottenere documenti, difficile inserimento nel mondo del lavoro.

Come ancora scrive l’artista Shamsia Hassani commentando una delle opere dedicate all’identità, “come cittadina del terzo mondo di cui l’identità non ha valore per gli altri, ho sempre pensato di non aver mai trattato male il mondo, ma piuttosto la guerra e la politica mi hanno incasellato in un individuo senza valore […] Porto un codice a barre di un paese del terzo mondo con me, che non ho chiesto, ma mi è stato dato e ovunque vada sarò interrogata a causa di esso, avrò restrizioni, confini si chiuderanno davanti a me. Più ci saranno conflitti, povertà, omicidi, e buio più confini si chiuderanno per noi”.

Cosa auguriamo esattamente alle donne afgane? Vogliamo per loro libertà? O piuttosto vorremmo che fossero esattamente come noi, perché è solo attraverso le categorie a cui siamo abituati che ci piace guardare il mondo? Siamo sicuri di aver creato una società capace di accogliere chi porta con sé il fardello del terzo mondo senza creare pericolose e umilianti dinamiche di potere? Ogni piccola notizia che giunge dall’Afghanistan viene immediatamente piegata alla nostra visione del mondo, alla nostra presunta verità, si seleziona con cura ogni parola per non scomodare le nostre categorie di pensiero.

Saperci decostruire

Ricordare che il pensiero eurocentrico, la costruzione di valori da esportare per il benessere altrui è stato alla base del supporto e della giustificazione di centinaia di occupazioni illegali e guerre oggi è necessario. Dal cosiddetto complesso del “white savior” (salvatore bianco), noi nati e cresciuti in Occidente, non possiamo essere immuni, a meno che non si operi consapevolmente una decostruzione del pensiero e delle categorie con cui siamo abituati a pensare il mondo. Non basta desiderare che le donne afgane siano libere, bisogna augurarsi che anche i loro uomini lo siano. Desiderare che siano libere, significa accettare che potrebbero farlo restando coperte dalla testa ai piedi nel nome dell’Islam.

Il fatto che i talebani vengano erroneamente definiti salafiti o vicini ad Al Qaeda è un piccolo esempio di quanto, in fondo, alla moltitudine interessa poco capire, ma piuttosto creare una narrazione rassicurante. I talebani dal punto di vista dottrinale sono deobandi, una corrente islamica sunnita molto variegata che ha origine nel subcontinente indiano nell’epoca della colonizzazione britannica.

donna araba musulmana veloSorrido mentre penso che in un periodo della mia vita ho condiviso l’appartamento con due donne deobandi che coprivano il volto oltre al capo, a seguito di un percorso di consapevolezza del proprio vissuto religioso. Entrambe stavano perseguendo una brillante carriera nel campo della medicina, cercando l’equilibrio con la vita familiare e religiosa. Potevano farlo perché si trovavano in un paese europeo, ricco, stabile, con migliaia di possibilità, create nel corso di secoli a discapito degli altri.

Eh sì, ogni tanto ricordiamo che vivere nel benessere materiale è un privilegio ed è anche frutto di un’enorme ingiustizia. Non siamo tutti sulla stessa barca, né a livello globale né locale. Basta dare uno sguardo oltre il centro delle nostre città, basta alzare la testa e guardare donne e uomini che qui hanno cercato speranza, e che difficilmente diventeranno cittadini come noi con eguali diritti e opportunità.

Riconoscere i limiti

L’Afghanistan è uno dei maggiori produttori di oppio al mondo. Potrebbe bastare solo questo per spiegare anni di invasioni, guerre, strategie politiche al fine di accumulare profitto e potere. Il mondo tuttavia è assai più complesso e ognuno può guardarne solo un piccolo pezzo. Oggi la narrazione sull’Afghanistan ci offre quindi un altro importante spunto di riflessione sulla nostra capacità perduta di accettare i limiti. Il desiderio di potersi esprimersi su qualsiasi argomento al pari di chi ha maturato competenze ed esperienza è il riflesso del rifiuto di accettazione che il nostro sguardo e la nostra capacità argomentativa sono sempre delimitati e parziali.

Molto indicative sono le espressioni che giornalisti, ricercatori e studiosi esperti di Afghanistan lontani da una retorica coloniale e riduttiva del paese usano in questi giorni. Sempre delimitano il campo, mettono in guardia dalla loro capacità di essere esaustivi, secondo il principio “più so e più so di non sapere.” Se si desidera conoscere la storia e i complessi intrecci che hanno condotto l’Afghanistan a decenni di guerre, sfruttamento del territorio, distruzioni che hanno impedito il naturale sviluppo del paese, è a queste persone che bisogna rivolgere l’attenzione. Il resto è intrattenimento, informazione irresponsabile e profonda mancanza di rispetto per l’umanità che muore dall’altra parte del mondo.

Quell’umanità dall’altra parte del mondo non ha avuto la possibilità di autodeterminazione, non ha avuto l’opportunità di crescere e progredire con i propri tempi, usufruendo dello splendore dei suoi propri strumenti culturali e religiosi, che, che piaccia o no, ha profonde radici in quello che si chiama Islam.

Rosanna Maryam Sirignano
©2021 Il Grande Colibrì
immagini: elaborazioni da USAID (CC0) / da agung foy (CC0) / da Sarah Pflug (CC0)

 

Rosanna Maryam Sirignano: “Conoscenza, formazione, dialogo, spiritualità sono le parole attorno alle quali ruota la mia esistenza e il mio lavoro. Ho fondato MaryamEd Formazione Transculturale, uno spazio di condivisione del sapere oltre i confini. Da quando sono nata abito un corpo femminile che dal 2010 è diventato islamico attraverso l’uso del velo” > leggi tutti i suoi articoli

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