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Per un secolo discriminazioni di genere, di razza, di trans e intersessualità, di religione e di disabilità hanno segnato le Olimpiadi. In occasione dell’apertura delle Paralimpiadi di Londra, ieri, abbiamo chiesto un commento sui Giochi da poco conclusi a Mauro Valeri, sociologo che dirige l’Osservatorio sul razzismo nel calcio ed autore di “Stare ai giochi” [Il Grande Colibrì], oltre che di svariate altre pubblicazioni sul rapporto tra  sport e razzismo.

Le Olimpiadi si sono svolte in pieno Ramadan. All’inizio sembrava che alcune gare potessero essere anticipate nel corso della giornata per non sfavorire troppo gli atleti musulmani, ma questa linea (probabilmente anche per esigenze televisive, vere padrone dell’evento) non è passata. Come si possono conciliare le esigenze sportive e il rispetto per le religioni?

La preoccupazione del CIO è di evitare sia che i Giochi si possano trasformare in manifestazioni di propaganda religiosa (o politica, come nel caso del famoso pugno chiuso di Tommie Smith nel 1968), sia che scelte di tipo religioso possano compromettere la “lealtà sportiva”. Per questo la coincidenza dei Giochi di Londra con il Ramadan ha obbligato ad una riflessione e la soluzione è stata quella di lasciare aperti i ristoranti per tutta la notte, mentre non sono state previste modifiche sul programma, sia perché molti atleti di fede musulmana hanno rinunciato al Ramadan, sia perché è stato valutato che le ripercussioni sulla prestazione sportiva non compromettessero significativamente la “lealtà sportiva”.

La conciliazione tra esigenze sportive e rispetto per le religioni, almeno fino ad oggi, è stata intesa come una subordinazione delle religioni alla “lealtà sportiva”. Un esempio riguarda il velo islamico, che viene escluso in quegli sport in cui può comportare problemi di tipo “igienico e di sicurezza”. Devo anche dire che su questi temi c’è una forte attenzione mediatica. Quando a Seul l’afroamericana Florence Griffith corse con un cappuccio stile pattinaggio su ghiaccio (assai simile ad un modello di hijab sportivo), nessuno ebbe nulla da dire. Se viene indossato da una centometrista di fede musulmana invece fa notizia e fa discutere.

Per la prima volta non ci sono state nazioni che hanno escluso completamente le donne dalla propria rappresentanza olimpica. Anche l’Arabia Saudita ha finalmente portato nella delegazione due atlete, Sarah Attar e Wojdan Shaherkani. Questa inclusione è da attribuirsi più alle pressioni del Cio o più alle proteste “femministe” svoltesi nel Paese?

L’ipotesi che propongo nel mio libro è che le modificazioni che avvengono nello sport sono sempre anche il frutto delle rivendicazioni dei movimenti sociali, che il CIO è “obbligato” a fare proprie perché la Carta olimpica si basa sulla non discriminazione. Anche se a volte utilizzato in maniera impropria, il boicottaggio olimpico ha avuto anche questa funzione. Indubbiamente il coinvolgimento “olimpico” delle donne musulmane rappresenta un obiettivo non secondario del CIO anche per interessi di tipo economico e politico. Ma è importante anche evidenziare come lo sport possa, in alcuni casi, essere motore del cambiamento sociale. Pensiamo agli atleti afroamericani: le loro vittorie olimpiche hanno certamente contribuito anche alla lotta per il riconoscimento dei diritti civili. Lo sport da solo non basta, ma di sicuro può rappresentare un utile sostegno per il riconoscimento di diritti anche non sportivi.

Nella stessa gara in cui l’araba Attar è giunta ultima ma applauditissima, sono anche riapparse Caster Semenya e Pamela Jelimo. Le due atlete, accusate di “non essere donne” dopo gli ultimi Giochi, hanno avuto vicende travagliate e la Semenya ha perfino accettato di sottoporsi a cure ormonali per riequilibrare i parametri che secondo i test l’allontanavano dalla piena femminilità confinandola nella zona grigia dell’intersessualità. Con la partecipazione di atleti intersessuali si è abbattuta anche l’ultima barriera delle discriminazioni?

La partecipazione olimpica di atlete intersessuali è una vittoria importante nella lotta contro le discriminazioni in ambito sportivo. Restano però problemi di discriminazione verso quest* atlet* esercitati da diverse federazioni nazionali e i commenti che ancora accompagnano queste ed altre partecipazioni, con battute volgari sull’identità sessuale, sull’orientamento sessuale o su presunte razze. La lotta alla discriminazione non si è conclusa perché il problema non è “l’importante è partecipare” di De Coubertin, ma permettere a tutti di partecipare. E quel “tutti” è un termine che ingloba raggruppamenti sociali che possono essere molto articolati, che avanzano rivendicazioni di riconoscimenti per i diritti civili, sociali e politici.

In ambito sportivo, queste rivendicazioni possono – come è già accaduto in passato – anche rimettere in discussione il concetto stesso di “lealtà sportiva”. Per restare ad esempi recenti: alcuni movimenti femministi ritengono discriminatoria la distinzione tra gare maschili e gare femminili. C’è poi il caso del nuoto sincronizzato che, non si capisce perché, è uno sport olimpico solo femminile. Nel mio libro ho cercato anche di evidenziare quali siano stati i modelli di inclusione utilizzati dal CIO. Inoltre, come insegna la storia dei “neri”, le vittorie in campo sportivo rischiano di rafforzare le discriminazioni sociali: sei bravo nello sport perché, in fondo, sei meno intelligente. Anche in questo caso è evidente che la lotta alle discriminazioni nello sport debbono essere accompagnate da analoghe lotte nella vita sociale.

Alla vigilia di Londra 2012 sembrava che durante i Giochi una quantità notevole di omosessuali avrebbe approfittato della presenza in Gran Bretagna per richiedere asilo [Il Grande Colibrì]. Non è accaduto: forse perché il dichiararsi gay è ancora deleterio per un atleta olimpico?

Penso che il riconoscimento dello status di rifugiato per orientamento sessuale sia ancora uno strumento giuridico poco utilizzato. Anche per questo continua ad esistere il timore di dichiararsi gay per quegli atleti che provengono da paesi in cui l’omosessualità è argomento da codice penale o da stigma sociale, anche se l’aumento di atleti che hanno fatto coming out è un segnale importante. Penso però sia riduttivo ricondurre tutto alla scelta individuale di dichiararsi, perché la lotta all’omofobia o alla transfobia dovrebbe essere un impegno dichiarato ed esplicito delle delegazioni olimpiche, delle federazioni nazionali e delle squadre d’appartenenza. E su questo siamo ancora molto indietro.

L’inclusione della rappresentanza sudafricana nella finale della staffetta, nonostante non abbia concluso la gara precedente, sa un po’ di riparazione per le discriminazioni e polemiche che Oscar Pistorius ha dovuto subire. Quando si potrà pensare ad un modello di Giochi a cui tutti possano prendere parte?

Io penso che la partecipazione di Pistorius sia stata molto importante, soprattutto da un punto di vista simbolico, che comunque non deve farci sottovalutare l’impegno dell’atleta, anche al di là delle protesi che utilizza. Ritengo poi che le Paralimpiadi siano una grande opportunità, sportiva e sociale, per molti atleti con disabilità e anche per far riflettere sulla loro/nostra “normalità” su cui spero che inizi un ripensamento più profondo. Ma è necessario un ulteriore passaggio: prevedere che alcune gare riservate ad atleti con disabilità vengano inserite all’interno dei Giochi Olimpici contribuendo al medagliere generale. E’ un modello che ritengo maggiormente integrativo.

Quale bilancio possiamo dunque tracciare per Londra 2012 rispetto alle precedenti edizioni dei Giochi olimpici per quanto riguarda le discriminazioni che ha descritto nel suo libro?

Se pensiamo che il modello olimpico originario era quello di limitare la partecipazione ai Giochi ai “maschi, bianchi, normodotati”, sicuramente Londra 2012 ha rappresentato un momento molto importante per la lotta alla discriminazione. Tra l’altro le donne sono diventate quasi la metà dei partecipanti, sebbene non nelle strutture decisionali e le teorie razziste sugli atleti “neri” sono state ridicolizzate, anche perché atleti e atlete neri hanno vinto medaglie in competizioni considerate in passato “riservate” ai bianchi. Condivido però la polemica sullo scarso coraggio degli organizzatori nel non fare una esplicita dichiarazione contro le discriminazioni, lasciando ad esempio poco spazio mediatico ai movimenti. La speranza è che a Rio 2016 ci sia anche questo coraggio.

L’atleta somala Samia Yusuf Oman è morta su una “carretta del mare” insieme a un imprecisato numero di altri migranti che tentavano di raggiungere l’Europa dalla Libia. Sperava di arrivare a Londra 2012 ed ha affrontato la fuga dal proprio paese di origine, la detenzione in Libia e un viaggio rischioso per una nuova vita [International Business Times]. Che idea si è fatto di questa tragedia?

Non so quali siano stati i motivi che hanno spinto Samia alla fuga. Di certo, l’aver partecipato alle Olimpiadi di Pechino 2008 non le ha garantito la libertà che cercava. Vorrei però fare anche un’altra riflessione: cosa sarebbe successo a Samia se fosse riuscita a raggiungere l’Italia? Avrebbe avuto l’opportunità di continuare a correre o sarebbe stata costretta, come migliaia di altri rifugiati, a vivere nella più assoluta precarietà? Tranne poche eccezioni, l’Italia è un paese che non offre opportunità sportive ai richiedenti asilo.

L’esperienza della squadra di calcio dei Liberi Nantes, composta prevalentemente da richiedenti asilo, è unica e per molti versi emblematica: è stata ammessa a partecipare al campionato di calcio di Terza categoria, ma le sue partite sono “fuori classifica”. E’ un’altra discriminazione che dovrebbe essere combattuta. Spero che quella corsa che è stata impedita a Samia possa essere continuata da una giovane promessa, Abdikadar, figlio di rifugiati politici somali, che da poco è riuscito ad ottenere la cittadinanza italiana, a cui auguro di poter partecipare a Rio 2016, anche con un pensiero a Samia.

 

Michele
©2012 Il Grande Colibrì

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