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Mentre il mondo si interroga su chi sarà l’ultimo tedoforo a portare la fiaccola delle Olimpiadi di Londra, i Giochi hanno già raggiunto qualche piccolo record. Non tanto quello di una grande visibilità degli atleti omosessuali, che nonostante i progressi restano perlopiù invisibili (Il grande colibrì), quanto – comunque – quello di una maggiore inclusività rispetto al passato per altre discriminazioni.

Le moderne Olimpiadi, infatti, sono state segnate da un numero consistente di ingiustizie che sono descritte nell’ottimo lavoro di Mauro Valeri “Stare ai giochi. Olimpiadi tra discriminazioni e inclusioni” (Odradek edizioni, giugno 2012, € 18,00), in cui sono descritte con puntualità e completezza le esclusioni di genere, razziali, verso persone con disabilità, verso persone transessuali e intersessuali, religiose, oltre che la discriminazione multipla che ha riguardato (e in parte riguarda ancora) le atlete di colore.

I Giochi moderni sono stati razzisti e sessisti fin dalle origini, forse anche per conservare le tradizioni che li riservavano agli uomini già nell’antichità: di fatto da Pierre De Coubertin ad Avery Brundage (presidente del Comitato olimpico statunitense e poi del CIO), ma anche i loro successori, non si sono mai mostrati molto all’avanguardia nel promuovere l’inclusività.

Le prime Olimpiadi moderne hanno visto la totale esclusione delle donne e la loro presenza, pur crescendo progressivamente dalla seconda edizione in avanti, ha sempre rappresentato un’esigua minoranza di discipline e di atlete. Si è quindi trattato di una discriminazione decisa dall’alto, terminata ormai nei fatti con l’inclusione di quasi tutte le discipline sportive anche per le donne e con la crescita della partecipazione femminile che si sta avvicinando alla metà degli atleti iscritti.

Discriminazioni meno esplicite, ma non meno dolorose, hanno riguardato altre categorie: alla fine dell’Ottocento le teorie razziste erano ancora in voga quasi ovunque, e sebbene i regolamenti olimpici non limitassero l’accesso alle persone di colore, esse potevano accedere alla carriera sportiva solo quando fossero di agiate condizioni o studenti universitari. Per molti decenni, poi, i soli atleti di colore erano afroamericani (che vivevano il paradosso di essere eroi sportivi all’estero ma discriminati in patria, fatto che portò anche alla clamorosa protesta dei pugni chiusi di Tommie Smith e John Carlos a Città del Messico 1968) o comunque di una nazione colonialista, mentre l’Africa “accede” ai Giochi (e alle medaglie) solo nel secondo dopoguerra, con le indipendenze di molti Paesi ex-colonie.

Esclusioni hanno riguardato anche i disabili, sebbene diversi siano i casi di atleti, specie nelle prime edizioni, che avevano usato lo sport come cura di una disabilità e che poi erano diventati atleti, mentre nel caso delle religioni la discriminazione ha riguardato, specie in anni più recenti, il modo di presentarsi sul terreno di gioco (abbigliamento, rasatura, ecc.), creando non pochi incidenti diplomatici.

Va detto peraltro che il Comitato Olimpico Internazionale si è vieppiù ammorbidito nel corso del tempo, tanto che nei regolamenti olimpici si sancisce che non possono partecipare ai Giochi nazioni che abbiano leggi razziali (come il Sudafrica dei tempi dell’apartheid) o che non includano nella loro rappresentanza anche le donne (come l’Afghanistan dei Talebani, sebbene misteriosamente non sia mai stata rifiutata la partecipazione all’Arabia Saudita).

La discriminazione forse più dolorosa e violenta, però, ha riguardato le persone transessuali e quelle intersessuali. Sin dall’esordio delle donne alle Olimpiadi, si è spesso ironizzato su caratteri mascolini che presentavano alcune atlete, giungendo ad accusare alcune di imbrogli. Per “salvaguardare la lealtà sportiva” il CIO decise allora di introdurre un umiliante test di femminilità, che partiva dal presupposto che i maschi hanno normalmente una coppia di cromosomi XY e le femmine una coppia XX. Ma se questa è la regola generale, non sono rari i casi differenti, spesso sconosciuti alle atlete stesse, per non parlare delle modifiche causate dal doping di stato dei paesi del blocco sovietico.

Sovrapponendo i diversi capitoli del volume, che raccontano analiticamente ogni episodio significativo (con anche un occhio attento alle statistiche), il ritratto dei Giochi olimpici che ne esce è abbastanza sconvolgente, così come è triste dover scoprire la misoginia di De Coubertin o il razzismo del maestro del giornalismo sportivo italiano, Gianni Brera. O verificare che, malgrado i passi avanti fatti nell’aprire i propri orizzonti, il CIO abbia concesso l’uso del termine “olimpico” ad un centinaio di manifestazioni nel mondo, ma non ai giochi LGBTQ*, che per questo continuano a chiamarsi “Gay Games” (va detto che nei confronti di gay e lesbiche non c’è mai stata discriminazione ma solo, eventualmente, irrisione mediatica).

Ma una luce di speranza è data dal fatto che nelle Olimpiadi che si aprono domani (che pure si svolgono in pieno Ramadan, perché lo sport rimane, per i suoi gestori, la sola religione possibile) ci saranno tante donne, ci saranno tante persone di etnie diverse, ci sarà anche il disabile Oscar Pistorius, ci saranno persone di ogni credo, e ci saranno anche transessuali e intersessuali. Ma la storia raccontata da Valeri è comunque da conoscere.

 

Michele
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