Skip to main content

In Medio Oriente, le persone LGBTQIA (lesbiche, gay, bisessuali, trans, queer, intersex e asessuali) hanno pochi diritti o vengono spesso perseguitate dallo stato. La maggior parte dei paesi mediorientali eseguono una pena detentiva e alcuni praticano addirittura la pena di morte per “attività omosessuali”. Lo stato di Israele fa eccezione. Chi si informa su cosa vedere e fare come turista a Tel Aviv, scopre hotel, spiagge, bar e club LGBTQIA e il Pride di Tel Aviv, cose che rendono la città una destinazione perfetta per i turisti LGBTQIA.

Come in tanti altri stati che tutelano i diritti LGBTQIA, l’eccezione di Israele in Medio Oriente è il frutto di una lotta degli ultimi 25 anni. Grazie a una rete di politici LGBTQIA e alleati etero, i pari diritti per tutti sono stati introdotti nella legge che permette oggi a tantissimi israeliani omosessuali, bisessuali e trans di vivere una vita all’aperto, di creare delle famiglie, di iscriversi al servizio militare e di partecipare alla vita quotidiana del loro paese.

Questo sviluppo ha avuto inizio nel 1993, quando lo stato israeliano ha permesso per la prima volta alle persone LGBTQIA di iscriversi al servizio militare. Nel 1998 Israele ha eliminato la legge contro la sodomia. Sempre nello stesso anno, la corte suprema israeliana ha stabilito che sia il settore pubblico che il settore privato avrebbero dovuto garantire tutti i benefici sociali ai coniugi dello stesso sesso dei loro dipendenti. Nel 2005 lo stato israeliano ha iniziato a riconoscere tutti i matrimoni omosessuali celebrati all’estero. Ma com’è nata questa apertura e tolleranza verso la comunità LGBTQIA in una regione piuttosto conservatrice e intollerante verso chi non è eterosessuale? Israele è sempre stato a favore dei pari diritti per tutti?

Leggi anche: Adozioni gay in Israele: il diritto fantasma e la propaganda

L’immagine di Brand Israel

Nel 2005, un ultraortodosso ha accoltellato sei persone al Gay Pride di Gerusalemme. Un anno dopo, sempre a Gerusalemme, un attivista di estrema destra ha fatto un pubblico appello per lanciare una “guerra santa” contro le persone queer, durante il Pride. Questi due casi di omofobia sono stati poco discussi nello spazio pubblico. Quando invece al Pride del 2009 due adolescenti LGBTQIA sono stati uccisi e diversi partecipanti feriti, Simon Peres, ai tempi presidente di Israele, e Benjamin Netanyahu, all’epoca ministro per la strategia economica e l’uguaglianza sociale, hanno rilasciato delle dichiarazioni pubbliche, esprimendo la loro profonda preoccupazione e dichiarando gli eventi un “national loss” (perdita per la nazione) [nota 1].

La reazione nei confronti di quest’ultimo crimine, rispetto ai precedenti, ha una spiegazione: il perché diventa ben chiaro una volta analizzata la campagna “Brand Israel” (Marchio Israele), iniziata dal governo e sostenuta dal ministero del turismo e da diversi rappresentati statali, come appunto Simon Peres e Benjamin Netanyahu.

bandiere israele sventolano ventoDopo il 2006, la reputazione internazionale dello stato di Israele ha subito un colpo a causa del suo intervento militare in Libano. Per ricevere più sostegno e simpatia dall’estero, lo stato di Israele ha creato una nuova immagine di sé, meno associata alla guerra, un’immagine che mostrasse il paese come un luogo accogliente. La ministra degli affari esteri di allora, Tzipi Livni, ha descritto la sua visione di Israele nel 2006 come “un luogo desiderabile da visitare e in cui investire, un luogo che preserva gli ideali democratici mentre lotta per esistere”.

Brand Israel ha trasformato un paese di guerra in un posto in cui si combatte per i diritti uguali per tutti, in una cultura cosmopolita in una regione accogliente del Mediterraneo [nota 2]. Parte del branding era la promozione del turismo gay-friendly: nel 2010 è stata lanciata la campagna “Tel Aviv Gay Vibe” (Vibrazioni gay a Tel Aviv), che offre viaggi a prezzi scontati e attività gratuite ai turisti LGBTQIA. Quando Tel Aviv è stato votata come prima destinazione gay nel 2012, il ministro del turismo di allora, Pini Shami, ha sottolineato l’importanza del potere economico della community LGBTQIA per il turismo in Israele [nota 1].

Leggi anche: 70 anni di Israele, “democrazia laica” in profonda crisi

L’occupazione oscurata

Quello che è iniziato come una campagna turistica, è diventato uno strumento nelle relazioni internazionali di Israele. Nel 2011 Netanyahu ha dichiarato al Congresso degli Stati Uniti: “In una regione in cui le donne vengono lapidate, i gay vengono impiccati e i cristiani perseguitati, Israele si distingue. È diverso”. Essere gay friendly oggi è un sinonimo di diversità, cosmopolitismo, sviluppo e democrazia. L’elemento democratico è di grandissima importanza per Israele, perché vari accademici hanno già messo in dubbio il carattere democratico di uno stato che occupa i territori palestinesi [nota 3].

Anche l’organizzazione Stand With Us supporta i diritti LGBTQIA nella sua missione di “sostenere Israele in tutto il mondo attraverso l’educazione e la lotta all’antisemitismo”. Il problema di questo genere di pubblicità è che il maltrattamento dei palestinesi – indipendentemente dalla loro sessualità – viene nascosto e ignorato. Mentre i palestinesi LGBT+ lottano contro l’omofobia come tante altre persone queer nel mondo, devono anche lottare contro l’occupazione e la discriminazione da parte dello stato israeliano. Cancellare l’esperienza palestinese di sfollamento, espropriazione e privazione di diritti, consente allo stato di Israele di costruire un “paradiso gay” che altrimenti non sarebbe possibile [nota 2].

Aeyal Gross, professore di legge e diritti umani presso l’università di Tel Aviv, ha descritto la situazione dei diritti LGBTQIA in Israele come “appropriazione” [nota 3]: considerando che la comunità LGBTQIA israeliana ha fatto uno sforzo enorme per ricevere gli stessi diritti delle persone eterosessuali, lottando in tribunale contro rappresentanti statali, lo stato israeliano ora si sta appropriando di questi diritti che una volta stava contrastando, per dimostrarsi una vera democrazia.

israele democrazia crisiOmonazionalismo e pinkwashing

Jasbir Puar, professoressa di teoria queer e studi di genere negli Stati Uniti, ha creato il termine “omonazionalismo” nel suo libro “Terrorist Assemblages: Homonationalism in Queer Times” (Assemblaggi terroristici: l’omonazionalismo in tempi queer; Duke University Press 2007, 368 pp.) per descrivere lo sviluppo negli USA di una strategia in base alla quale, tutelando i diritti delle persone LGBTQIA e sottolineando la tolleranza e l’accettazione nei loro confronti, lo stato include le minoranze sessuali nella costruzione di un nazionalismo che vede il paese d’appartenenza dei soggetti LGBTQIA come il migliore nella difesa di diritti umani e libertà.

Allo stesso tempo, i cittadini musulmani vengono rappresentati come “gli altri”: intolleranti, arretrati, incapaci di integrarsi nella società liberale e ultimamente una minaccia per la cultura democratica. Forti del sostegno al matrimonio gay e alla partecipazione dei cittadini LGBTQIA alle forze armate, questi stessi cittadini si percepiscono come legittimati dallo stato e ciò facilita ciò che Puar definisce “eccezionalismo”, ovvero un senso di superiorità e singolarità che nasce dal vedersi come tutori della democrazia e dei diritti umani.

La conseguenza di questo eccezionalismo non è solo la stigmatizzazione dei cittadini musulmani come intolleranti, ma di tutte le comunità religiose e di colore come più omofobe di quanto le comunità LGBTQIA convenzionalmente definite bianche siano razziste. Basandosi su questa argomentazione, lo stato continua la guerra al terrorismo con il sostegno delle comunità LGBTQIA che condividono questa percezione delle minoranze religiose ed etniche.

Leggi anche: Pinkwashing: ecco come vogliono venderci la guerra all’Iran

L’eccezionalismo di Israele è diverso da quello statunitense. Nella continua lotta per la propria esistenza, Israele giustifica l’uso “eccezionale” di violenza e tecnologie antiterrorismo contro i palestinesi. Tutti i palestinesi, indipendentemente dalla loro sessualità o religione, vengono visti come appartenenti, in un modo o l’altro, al fondamentalismo islamico. La strategia dello stato di Israele di sostenere i diritti delle persone LGBTQIA e violare allo stesso tempo i diritti umani nei territori occupati è stata chiamata “pinkwashing” da Sarah Schumann in un suo editoriale sul New York Times del 2011. La libertà delle comunità LGBTQIA nello stato di Israele viene vista come indicatore di una modernità che rende l’idea della violazione di diritti umani quasi inimmaginabile.

Le forze di difesa israeliane

Dopo le atrocità commesse dall’esercito israeliano a Gaza e l’attacco alla flottiglia diretta verso la stessa città, Israele stava perdendo le simpatie di altri paesi. Inoltre, le minacce verso l’Iran provocavano sempre più opposizione internazionale al militarismo israeliano. Tuttavia, dirigendo il discorso militare verso la presenza di persone LGBTQIA nell’esercito, lo stato israeliano ha conquistato nuove voci (inizialmente contrarie agli attacchi a Gaza) a favore delle sue forze di difesa [nota 4].

Simbolo di questo nuovo discorso sulle forze armate era la foto di due soldati israeliani che si tengono per mano, pubblicata sulla pagina Facebook delle forze di difesa israeliane (IDF). La foto è stata condivisa più di 8mila volte e ha ricevuto più di 10mila “Mi piace”, ma poco dopo la pubblicazione è stato accertato che la foto era una messa in scena: nessuno dei due soldati fotografati è gay. L’IDF si è sempre rifiutata di rispondere alle domande sull’identità dei due soldati.

L’omofobia palestinese

Come abbiamo visto nella parte dedicata a Puar, un elemento chiave dell’omonazionalismo e del pinkwashing è la rappresentazione della società palestinese come intrinsecamente intollerante, sottosviluppata e omofoba – e della comunità LGBTQIA palestinese come debole, inetta e costretta a rimanere “in the closet” (velata, nascosta) [nota 5]. Secondo la retorica del pinkwashing, i palestinesi si rifugerebbero in Israele per sfuggire alla loro cultura arretrata.

Shaul Ganon, giornalista e responsabile di Aguda Palestinian Rescue Project, descrive “la cultura araba” come una cultura “tribale”, in cui le massime priorità sono date all’onore e alla famiglia. Inoltre Ganon vede la religione musulmana come omofoba e legittimante la pena di morte per le persone omosessuali. Commettendo l’errore di considerare tutti i palestinesi come musulmani, Ganon vede l’origine del problema della “cultura araba con l’omosessualità nella mancanza di laicità [nota 6].

Anche Netanyahu, dopo l’attacco a Gaza del 2010, ha detto: “Andate nei luoghi dove impiccano omosessuali nelle piazze, dove non ci sono diritti umani. Andate a Teheran. Andate a Gaza. Chiunque ritenga i diritti umani davvero importanti deve sostenere Israele, liberale e democratico” [nota 3]. Le violazioni di diritti umani nei territori occupati non vengono mai menzionate. Ricordando sempre che in altri paesi del Medio Oriente l’omosessualità viene punita con la pena di morte, Israele, quando deve affrontare delle critiche sull’occupazione, si rappresenta come uno stato che protegge i diritti umani nella regione.

Leggi anche: Gerusalemme, il Pride delle tensioni e la realtà di Israele

Israele il liberatore?

Non si può negare che le persone LGBTQIA abbiano più libertà nella società israeliana che in Palestina, tuttavia questa libertà non è né assoluta né disponibile per tutti. Inoltre, lo spazio sicuro per le persone LGBTQIA in Israele è in realtà solo Tel Aviv. Altre zone possono risultare omofobe quanto gli stati mediorientali. Israele come rifugio per i palestinesi LGBTQIA è altrettanto un mito, perché i palestinesi della Cisgiordania e di Gaza non hanno modo di accedere a Israele. Un paio di storie di palestinesi LGBTQIA “salvati” da Israele non rende lo stato un liberatore dei palestinesi queer.

Israele conta sulle società liberali internazionali che percepiscono l’accettazione delle persone LGBTQIA come indicatore di modernità, sviluppo e democrazia. Mostrandosi solidali con la comunità LGBTQIA israeliana che vive con più libertà della comunità LGBTQIA in Palestina, gli alleati internazionali di Israele sono più propensi a sostenere l’occupazione o a ignorare la violazione di diritti umani – se questo significa più libertà per le persone LGBTQIA.

Celia Gomez
©2020 Il Grande Colibrì
immagini: elaborazione da Justin McIntosh (CC BY 2.0) / da Pikremo (CC0) /  da raandree (CC0) / IDF

Note:
[1] Katherine M. Franke (2012), “Dating the State: The Moral Hazards of Winning Gay Rights”, in Columbia Law School [PDF]; una versione dello stesso articolo è stata pubblicata anche in Columbia Human Rights Law Review, vol. 49, n. 1, fall 2012, pp. 1-46.
[2] Elia Nada (2012), “Gay Rights with a Side of Apartheid”, in Settler Colonial Studies, vol. 2(2) [PDF].
[3] Aeyal Gross (2015), “The Politics of LGBT Rights in Israel and Beyond: Nationality, Normativity, and Queer Politics”, in
Columbia Human Rights Law Review, vol. 46, n. 2, pp. 81-152.
[4] Dean Spade (2013), “Under the Cover of Gay Rights”, in New York University Review of Law & Social Change, vol. 37, pp. 79-100 [PDF].
[5] Gil Z. Hochberg (2010), “Introduction. Israelis, Palestinians, Queers: Points of Departure”, in GLQ: A Journal of Lesbian and Gay Studies, vol. 16(4), pp. 493-516 [PDF].
[6] Jason Ritchie (2015), “Pinkwashing, Homonationalism, and Israel–Palestine: The Conceits of Queer Theory and the Politics of the Ordinary”, in Antipode, vol. 47(3), pp. 616-634 [PDF].

Altra bibliografia:
* Jasbir Puar (2007), “Terrorist Assemblages: Homonationalism in Queer Times”, Duke University Press, 368 pp.
* Jasbir Puar (2011), “Citation and Censorship: The Politics of Talking About the Sexual Politics of Israel”, in Feminist Legal Studies, vol. 19, pp. 133-142.

Leave a Reply