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Dal web la primavera araba LGBT – 1. Boom di internet

Per la rivelazione pubblica del proprio essere LGBTQI (lesbiche, gay, bisessuali, transgender, queer e intersessuali) da tempo si usa l’espressione inglese “coming out” (venire fuori), che evoca deliberatamente il “coming-out party”, la festa delle debuttanti in cui giovani donne delle classi più ricche sono formalmente introdotte nella società adulta.

Analizzando la principale letteratura delle scienze sociali, un recente articolo sul Journal of Child and Family Studies ha notato come il coming out “è stato descritto come una componente essenziale della formazione dell’identità [delle persone bisessuali e omosessuali; ndr] e della loro integrazione” e come comporti un insieme di benefici in termini di salute mentale collegati al miglioramento dell’autostima e alla riduzione dell’ansia. D’altra parte, però, il coming out può avere come conseguenza l’esposizione alla discriminazione e il rifiuto da parte di amici e parenti.

Se consideriamo lo stigma sociale che produce, anche l’abbandono della fede islamica può essere considerato come una specie di coming out, anche se di solito manca completamente quell’aspetto celebrativo che spesso accompagna l’accettazione dell’identità LGBTQI.

Nel suo libro “The Apostates” (Gli apostati), uno studio sui musulmani che abbandonano la propria religione, il criminologo britannico Simon Cottee racconta la storia di una giovane sudanese che ha spiegato come per la persona apostata abbandonare l’Islam sia “un percorso davvero difficile”. Per “tutti gli altri”, comunque, “è solo una storia come altre, alla legge non interessa”; Cottee ha notato come con l’espressione “tutti gli altri” la donna si riferisse ai suoi amici non religiosi, mentre per la sua famiglia “non è una storia come le altre, è una calamità”.

Insomma, per entrambi questi gruppi emarginati il boom di internet accelererà il processo di coming out. Se l’ambiente offline è ostile, lo spazio online offre un ambiente relativamente sicuro in cui le persone possono unirsi, interagire e costruire relazioni. Protetti dal relativo anonimato delle comunicazioni online, gli individui emarginati di ogni tipo possono discutere di argomenti intimi e controversi.

Inoltre internet permette a persone che la pensano in modo simile, ma che abitano agli angoli opposti del mondo, di scoprirsi tra loro e di creare comunità virtuali. Per esempio, un ateo che vive nelle campagne egiziane potrebbe non conoscere nessuno che condivida le sue idee, ma quando si collegherà a internet troverà milioni di persone che le condividono.

Per rendersi conto di quale impatto avrà la maggiore penetrazione di Internet sulle società conservatrici dal punto di vista religioso, è fondamentale capire come l’integrazione online modifica il comportamento di chi appartiene a comunità emarginate. L’importante teoria della “demarginalizzazione identitaria” è particolarmente istruttiva.

In “Coming out in the age of the internet” [APA PsycNET], una ricerca del 1998, gli psicologi Katelyn McKenna e John Bargh hanno coniato l’espressione “demarginalizzazione identitaria” per spiegare come le persone con identità marginalizzate e nascondibili (in altre parole, identità stigmatizzate che non possono essere comprese semplicemente guardando una persona) interagiscono tra loro online.

Hanno scoperto che le persone con visioni sessuali e politiche marginalizzate attribuiscono grande valore alle opinioni dei propri pari nelle reti sociali online. La comunità online diventa per loro una fonte molto importante di sostegno emotivo in cui le persone possono “per la prima volta raccogliere i benefici dell’entrare a far parte di un gruppo di simili”.

Chi appartiene a gruppi emarginati riesce ad abbracciare più pienamente la propria identità marginalizzata se interagisce online con altre persone che hanno le stesse idee. Come ha notato una ricerca del 2008 sui gruppi online a favore dell’anoressia, i forum online sono “uno spazio ideale per mantenere e confermare” un’identità marginalizzata [PubMed]. E forse sono ancora più importanti le conclusioni di McKenna e Bargh: una volta che le loro identità sono demarginalizzate, le persone iniziano a prendere in considerazione lo svelamento pubblico della propria identità.

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Le comunità emarginate in Medio Oriente e in Africa settentrionale non dominano ancora l’ambiente online, ma riconoscono le promesse dell’impegno digitale. Come ha spiegato a Design Observer la fondatrice di Ahwaa, internet ha funzionato come una “porta aperta per la libertà di parola, in particolare su temi tabù che incontrano una censura generalizzata”. Per esempio, gli attivisti LGBTQI del nord Africa hanno creato delle riviste online di nicchia [Il Grande Colibrì].

Sono fioriti soprattutto gli appuntamenti online: Amir Ashour, un attivista iracheno, ha ricordato come, quando ha iniziato a sviluppare la prima organizzazione LGBTQI in Iraq, ha valutato l’interesse usando i social media, contattando alcune persone che conosceva e altre che ha conosciuto tramite Grindr e Tinder, due app per incontri [Attitude].

Gli atei del Medio Oriente e dell’Africa settentrionale hanno iniziato a prendere piede sui social network in modo simile. Molti gruppi atei su Facebook hanno riunito più di 20mila persone. Questi gruppi sono stati presi di mira dai conservatori, che hanno lanciato campagne online ostili e coordinate per spingere Facebook a sospendere gli account degli atei. Una tecnica consisteva nel postare immagini pornografiche sulle pagine atee per poi segnalarle immediatamente a Facebook. Alcuni islamisti hanno anche segnalato gli atei per presunti discorsi d’odio islamofobo [Al-Bab].

Queste tattiche hanno prodotto risultati temporanei: nel febbraio del 2016 Facebook ha sospeso almeno nove gruppi atei che insieme erano seguiti da più di 128mila persone, anche se poi il social network ha rapidamente ripristinato le pagine [Al-Bab].

Nonostante questi sforzi per zittire la comunità online degli atei, internet rimane un rifugio. Un ateo dell’Arabia Saudita, che ha criminalizzato “ogni forma di appello a favore del pensiero ateo” [Human Rights Watch], ha spiegato in un’intervista a Your Middle East che gli atei sauditi usano Facebook e Twitter sia per discutere di laicità e religione sia per organizzare incontri segreti dal vivo. L’uomo, che si è presentato con uno pseudonimo, ha raccontato di aver incontrato quarantenni e cinquantenni atei che avevano rivelato le proprie idee solo poco tempo prima, dopo aver interagito online con atei più giovani.

Alcuni attivisti atei hanno iniziato ad agire online con il proprio vero nome, rigettando gli pseudonimi che molti continuano a usare per proteggersi. Nel 2013 gli atei egiziani hanno creato il canale YouTube The Black Ducks (Le papere nere), che offre un ritratto delle persone atee o comunque non religiose del mondo arabo. Gli individui coinvolti nel canale hanno deciso intenzionalmente di non mascherare le proprie identità. Come ha spiegato un attivista a New Republic, “se noi atei smettiamo di essere fantasmi e ci materializziamo, verremo presi più sul serio. Non otterremo mai quello che vogliamo se non avremo il coraggio di reclamarlo con i nostri veri nomi e volti”.

Anche il discorso online della comunità LGBTQI si è evoluto ed è diventato più audace, come si può vedere nel caso del forum di Ahwaa: gli iscritti usano il sito come una cassa di risonanza per discutere di un insieme di temi delicati che raramente si affrontano in pubblico. Una persona che si identifica come lesbica, per esempio, ha chiesto agli iscritti al forum se l’omosessualità è haram (proibita) nell’islam e ha spiegato che si sente “così male a pensare che Dio non abbia mai neppure parlato di chi siamo nel Corano”.

In un’altra discussione, un internauta ha raccontato di aver perso tutti i propri amici quando ha fatto coming out con loro. Il suo post ha scatenato un’ondata di risposte solidali con cui gli iscritti al forum hanno consolato l’uomo e gli hanno offerto la loro amicizia online. Queste interazioni sviluppano la coesione sociale all’interno della comunità LGBTQI e aiutano a rimuovere lo stigma.

Ma forse il thread più rivelatore su Ahwaa riguarda un modo più visibile di “demarginalizzazione identitaria”: il coming out. In una lunga discussione, con decine e decine di post, gli iscritti al forum hanno discusso i vantaggi dello svelare il proprio orientamento sessuale a colleghi, amici e parenti. Molti internauti hanno condiviso le proprie esperienze divergenti di coming out. Una donna ha avvertito di aver incontrato difficoltà quando ha fatto coming out con la sua famiglia dalle idee religiose conservatrici, mentre un’altra ha raccontato che, quando ha detto a sua madre di essere pansessuale, lei all’inizio ha espresso dei dubbi, ma alla fine le ha detto: “Voglio solo che tu sia felice”.

In un’altra discussione, una ragazza ha spiegato che ha vissuto con “una paura e un senso di colpa costanti” perché aveva nascosto la propria identità sessuale alla famiglia. Molti iscritti al forum hanno risposto alle sue preoccupazioni. Uno le ha scritto: “Non devi proprio sentirti in colpa: tu sei così e se i tuoi genitori non possono capirlo e non vogliono capirlo, allora tieni questa cosa per te. Non c’è niente di vergognoso nell’essere diversi”. Pochi commenti esemplificano meglio il ruolo che le comunità online possono avere nella rottura dello stigma per le identità marginalizzate.

Dal web la primavera araba LGBT – 3. Scontro di identità

Daveed Gartenstein-RossNathaniel Barr per Foreign Affairs
traduzione di Pier
©2017 Foreign Affairs – Il Grande Colibrì

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