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Qualcuno può vantarsi più di Donald Trump di avere vinto le elezioni statunitensi l’8 novembre? Forse sì: è Breitbart News, il sito americano di estrema destra noto per gli articoli complottisti, per le campagne basate su notizie false, per i toni violenti e antisemiti, per le prese di posizione sessiste e razziste. Dopo che gli elettori hanno smentito le previsioni e le analisi del giornalismo più serio e autorevole e, anzi, hanno votato contro un establishment che comprende anche la stampa più prestigiosa, il direttore di Breitbart News, Steve Bannon, è stato scelto come consigliere strategico del nuovo presidente per ricompensarlo per il gran lavoro fatto come direttore della campagna elettorale di Trump.

Da ottimi conoscitori dei meccanismi mediatici e da persone senza scrupoli, Trump e Bannon hanno capito che dichiarazioni e proposte sempre più scandalose garantiscono la massima visibilità su televisioni, giornali e siti web: più il candidato repubblicano faceva affermazioni sessiste, islamofobe, xenofobe o anche semplicemente assurde, più i giornalisti si affrettavano a esprimere il proprio sdegno, finendo però per fare da eco alle parole che condannavano. Questa eco è stata amplificata milioni di volte da chi ha condiviso – per divertimento prima, indignazione poi e paura alla fine – i tweet di Trump, gli articoli su Trump, i meme contro Trump. I nemici di Trump gli hanno regalato le proprie pagine, i propri spazi, le proprie bacheche.

Perché tutta questa mobilitazione contro Trump non lo ha schiacciato, ma anzi ha contribuito alla sua vittoria? Senza cedere a eccessive semplificazioni (la grancassa mediatica ovviamente non spiega tutto il successo del milionario, anche se è difficile dare torto a Michael Moore quando scrive che Trump “è una creatura e una creazione dei media, anche se i media non lo ammetteranno mai”; Facebook), dobbiamo riconoscere che offrire una visibilità costante a un personaggio, alle sue idee, al suo modo di vedere il mondo, significa rafforzarlo, anche quando questa visibilità è “negativa”.

E se i grandi giornali hanno contribuito a creare il mostro Trump, è ora di riflettere su come i media LGBTQI (lesbiche, gay, bisessuali, transgender, queer e intersessuali) abbiano facilitato il successo di personalità e organizzazioni omofobe, per esempio rilanciando ogni singola dichiarazione-fotocopia di cantanti altrimenti dimenticati come Povia o di politici di terzo piano come Carlo Giovanardi, talmente importante da non raggiungere il 4% dei voti nella propria stessa città. Per non parlare della pubblicazione senza censure dei video propagandistici di Daesh (l’organizzazione terrorista nota anche come ISIS o Stato Islamico) in cui presunti omosessuali sono lanciati dai tetti dei palazzi [Il Grande Colibrì].

Qualche tempo fa ho fatto una brevissima ricerca sulla visibilità di un sito cattolico integralista italiano, scoprendo che ben metà degli articoli che parlavano di questo sito erano pubblicati da uno dei principali blog gay e che se si aggiungevano gli altri media LGBTQI arrivavamo a circa due terzi della copertura mediatica. Il restante terzo era rappresentato da organizzazioni integraliste che spesso si occupavano di questo sito solo per difenderlo dagli attacchi delle pagine gay. Insomma, senza i media LGBTQI questo sito integralista non avrebbe praticamente nessuna visibilità e, di conseguenza, pochissima capacità di diffondere, per esempio, notizie false sulla fantomatica “ideologia del gender”.

Questo caso un po’ estremo, però, illustra solo il lato più semplice del problema. Gli studi sulla diffusione delle teorie contro i vaccini hanno mostrato che la costante e ripetitiva presentazione di un’idea aumenta la sua capacità di diffondersi e di essere accettata, anche quando viene presentata solo per dimostrarne la falsità [The Conversation]. Se ci espongono continuamente a un’idea, il confine tra vero e falso, tra verosimile e inverosimile, inizia a vacillare perché il nostro cervello tende ad assimilare la familiarità alla verità.

Faccio un esempio: ieri ho spiegato a una persona su Facebook che l’articolo sugli immigrati che aveva postato (una notizia del tutto inverosimile) era una bufala. Lei ha serenamente riconosciuto che l’informazione che aveva condiviso era falsa, “ma cose del genere potrebbero pure accadere”. Insomma, un po’ come dire che il fatto non sussiste, ma la colpa di quel fatto sì. Di fronte ai vacillanti confini tra vero e falso a volte ci arrendiamo: rinunciamo all’incerta risposta a “com’è la realtà?” per preservare la risposta a “come giudico la realtà?”, su cui abbiamo più controllo.

Questo episodio mi ha fatto tornare alla mente un articolo che avevo scritto qualche anno fa per Il Grande Colibrì: era un pezzo di satira sulle Sentinelle in piedi, con finte dichiarazioni di integralisti cattolici ovviamente inverosimili e demenziali, come l’attacco al nome di Gesù, “un appellativo che termina addirittura con la ‘u’, l’unica vocale che non esprime la femmina o il maschio, la vocale del demonio”. Sono state proprio queste dichiarazioni a scatenare l’indignazione di molte persone (comprese militanti LGBTQI e studiose) sui social network, nonostante la loro evidente natura satirica e nonostante il fatto che l’articolo terminasse con l’esplicita indicazione che era tutto “soltanto opera di fantasia”.

Nel calderone dei social network informazione, disinformazione e satira si mescolano in un minestrone indistinto e facciamo sempre più fatica a distinguere una cosa dall’altra. E tutto peggiora se osserviamo come funziona l’informazione “seria” (o che pretende di esserlo): il successo su internet si misura in numero di clic, cioè con un meccanismo che premia la capacità di catturare l’attenzione momentanea e di parlare alla pancia, invece che la capacità di spiegare e far capire e parlare alla testa. In un ambiente mediatico di questo tipo non dovremmo sorprenderci del fatto che insultare e aggredire sono diventati gli strumenti più efficaci per promuoversi e avere successo.

Come risolvere una situazione del genere? La risposta mi sembra che debba essere triplice.

1. Dovremmo sviluppare nuove modalità di produzione dell’informazione che evitino che i media per sopravvivere siano dipendenti dalla ricerca del clic a tutti i costi, un meccanismo che nel breve periodo distrugge la qualità e nel lungo periodo distrugge i mezzi d’informazione stessi. La soluzione che proponiamo in questo blog si basa su un modello no profit, sul lavoro volontario e su una sostenibilità economica del tutto indipendente dalla pubblicità e dai clic, ma non possiamo negare alcune problematiche, come la costante sottovalutazione del ruolo politico dell’informazione da parte del movimento LGBTQI e la mancanza di risorse adeguate.

2. Chi produce informazione, dai giornalisti ai blogger, troppo spesso usa scorciatoie per sfuggire alle proprie responsabilità etiche. I media non hanno dato meno copertura mediatica a Trump per dovere di cronaca, ma per difendere i propri profitti (secondo il Washington Post la campagna elettorale infuocata ha fatto guadagnare 1,67 miliardi di dollari a Fox News e centinaia di milioni agli altri canali TV). Allo stesso modo, i media LGBTQI che ogni giorno riportano le dichiarazioni dei soliti noti omofobi non stanno facendo informazione, ma stanno accumulando soldi e potere sfruttando la nostra indignazione e facendo di fatto pubblicità (quindi offrendo soldi e potere) a chi ci odia. Bisogna denunciare con criterio razzisti, sessisti e omofobi, non strumentalizzarli per il proprio successo personale.

3. Ogni persona che si informa e che usa i social network deve assumersi le proprie responsabilità: al di là delle accuse mosse a Facebook o Twitter [Vanity Fair], tocca a noi riempire le nostre bacheche con notizie affidabili, tocca a noi premiare chi si impegna per un’informazione di qualità, tocca a noi resistere ai moti di indignazione e non condividere costantemente le dichiarazioni dei seminatori di odio. Perché le informazioni che condividiamo contribuiscono a formare il mondo in cui viviamo.

Pier Cesare Notaro
©2016 Il Grande Colibrì
foto: Il Grande Colibrì

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