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Barbara Herzog è nata nel 1975 in Svizzera e vive a Bologna da più di vent’anni. Si è laureata in Lingue e letterature straniere nel 2002 con una tesi in Letteratura africana all’Università di Bologna. Impiegata dal 2012 presso l’ASP (Azienda di Servizi alla Persona) di Bologna, esattamente al Servizio Protezioni Internazionali, si occupa insieme ai colleghi dell’assistenza ai migranti lungo l’iter della domanda di asilo. Oltre alla parte legale, il loro ufficio fa tutto il possibile per trovare alloggio, cibo, vestiti, cure mediche, scuola e lavoro. In poche parole ciò che serve per rifarsi la vita nel nuovo ambiente partendo da sotto zero.

Ho deciso di intervistarla perché, al di là della nostra amicizia e al di fuori dell’immenso e significativo lavoro d’ufficio che svolge, ha prodotto un libro di poesie e prose dal titolo “Se non nel silenzio” (L’arcolaio 2015, 11€), dedicato al suo lavoro quotidiano e che narra in maniera schietta, esplicita e diretta le sue esperienze con il mondo dei profughi.

Barbara, se dovessi fare una stima degli ultimi due anni, tramite il vostro Servizio quanti richiedenti presentano la domanda di protezione internazionale per motivi legati all’orientamento sessuale e all’identità di genere?

Meno di cinquanta direi. Ma ultimamente queste motivazioni della domanda di asilo stanno aumentando. Forse perché la gente è sempre meno disposta ad accettare la subordinazione a leggi che di fatto ti tolgono la libertà di essere te stessa/o. Forse perché gira la voce che davvero si può in alcuni paesi, tra cui l’Italia, chiedere protezione per tale motivo.

Attualmente lavori per il Servizio Protezione Internazionale, ma collabori anche con la squadra mobile per combattere la tratta. Parlando delle vittime di tratta con cittadinanza diversa da quella italiana, avete qualche collaborazione con rappresentanze o associazioni di comunità migranti per aiutare le vittime di provenienza extra-comunitaria?

Questione spinosa questa. Quello che abbiamo qui sono organizzazioni italiane. Per esempio il progetto “Oltre la Strada” e lo sportello “ChiamaChiAma”. Portate avanti da persone con istruzione apposita, esperienza e molta buona volontà. Si fatica ad affidarsi alle realtà del paese di provenienza di queste ragazze. Spesso abbiamo riscontrato che lo snodo del traffico si annida proprio lì in mezzo, nei luoghi e dalle persone con cui le ragazze si identificano maggiormente e con cui sono in suggestione.

Da qui nasce una delle difficoltà nell’aiutarle. In mezzo allo stile di vita e alle regole imposte da noialtri, spesso le ragazze fuggono. Troppa solitudine ed incomprensione, o sfiducia in un futuro diverso possibile. Dall’altro canto, finché rimangono legate alla comunità di provenienza, il richiamo al dovere verso chi si aspetta il ritorno economico da loro, rimane troppo forte. Quello che ci vorrebbe sarebbero tante donne fortissime e caparbie come Isoke Aikpitanyi e Pauline Aweto, ex vittime ora ambasciatrici per tutte le sorelle da far emergere dal loro inferno. Donne da sostenere in questo progetto in tutta l’Italia.

Ci spieghi cos’è il progetto SPRAR?

SPRAR sta per Sistema di Protezione dei Richiedenti Asilo e Rifugiati. È il progetto nazionale volto a dare ai profughi il necessario per ritrovare i mezzi per ripartire in autonomia nel nuovo paese. Significa strutture di accoglienza, convenzioni con enti locali di formazione, collaborazioni con centri di salute fisica e mentale, assistenza legale e una marea di altre cose.

Quali pensi siano i reali bisogni dei vostri utenti già inseriti nello SPRAR?

I bisogni variano da persona a persona. Dipende dal carattere, dalle capacità, dal vissuto. E dalle aspirazioni, diverse per ognuno di noi. A parte le cose a cui ho fatto riferimento sopra, direi che i bisogni primari di chi arriva forzatamente qui, dentro o fuori dallo SPRAR, siano l’essere visti, percepiti come esseri umani. E il rialzarsi sulle proprie gambe il più in fretta possibile per ritrovare la dignità perduta.

Oltre allo SPRAR, esistono altri progetti di accoglienza altrettanto competenti? Quali sono gli ostacoli che secondo te impediscono alla Provincia di Bologna di accogliere più richiedenti asilo in modo più adeguato?

Rispetto ad altre province, quella di Bologna non è poi messa tanto male. Il ché è tutto dire. Quello che servirebbe sarebbe un piano di lavoro nazionale capillare che si ergesse al di sopra del perenne atteggiamento emergenziale. Un’emergenza è un terremoto, per esempio. Non lo puoi prevedere e quindi può capitare una gestione delle problematiche non adeguata.

Le migrazioni non rientrano più da anni in questa categoria. Siamo super informati su conflitti ed abusi di diritti umani sull’intero globo, sui trafficanti, le rotte, su chi ci guadagna e chi ci perde. Strano quindi che nuovi centri d’accoglienza e operatori saltino fuori così, talvolta molto improvvisati. E che talaltra un territorio rimanga sprovvisto del numero adeguato di posti. Qui a Bologna abbiamo anche delle strutture decisamente adeguate, ma il 70% delle persone che assisto rimangono fuori.

Una forma davvero speciale di accoglienza che andrebbe sviluppata e sostenuta di più è l’accoglienza in famiglia. Porta benefici maggiori e a lungo termine, in quanto il calore e la vita in famiglia accelera notevolmente l’inserimento linguistico, sociale, lavorativo sul territorio. “Refugees Welcome” per esempio opera in tal senso.

Des opportunités je voudrais c’est tout
par rapport à la vie j’avais
avant
mon fiancé me portait
à la mangerie au còté de la rue
des riches qui allaient au Ritz
on buvait des cocktails
roses avec la palme dedans
et après on allait dans sa chambre
d’hotel il me traitait bien
en disant mon amour
aucun garçon jamais comme toi

on l’a tué après cinque mois
de prison ils continuent
à chercher
moi.

Opportunità vorrei e basta
in rapporto alla vita che avevo
prima
il mio fidanzato mi portava
al ristorante accanto alla strada
dei ricchi che andavano al Ritz
bevevamo cocktail
rosa con la palma dentro
e dopo andavano nella sua camera
d’hotel mi trattava bene
mi diceva amore mio
nessun ragazzo mai come te

l’hanno ucciso dopo cinque mesi
di prigione continuano
a cercare
me.

I frammenti di storie che ci proponi nei tuoi versi sono così crudi e veri, senza il minimo velo di abbellimento. Già dalla prima prosa ci racconti della procedura di accoglienza, tra empatia e professionalità gelida, di un minore non accompagnato arrivato in Italia da poco tempo. A leggere il tuo libro non sembra che tu voglia semplicemente raccontare le sofferenze dei profughi: cosa vorresti trasmettere ai lettori con le tue poesie?

se-non-nel-silenzio

La copertina del libro

Vorrei trasmettere ai miei lettori la singola persona. Non numeri, statistiche, generalizzazioni. Le lotte si fanno contro le sovrastrutture. Tipo colori, credi, nazionalità. Se riesci a far guardare negli occhi, nel cuore, un essere umano ad un altro, queste sovrastrutture svaniscono. Nasce l’empatia e la curiosità di conoscere meglio. Il primo passo verso il rispetto e l’amore.

Quando ogni giorno vieni a stretto contatto con infinite sfaccettature dell’umanità, gioisci sempre di più delle diversità e ti rendi sempre più conto di quanto in realtà siamo vicini. Vedere nel frattempo la perseveranza di chi si barrica dietro la confortante ma angosciosa negazione dell’Altro mi spinge a dare voce a chi non è sentito. Per dare la possibilità, nel sicuro della propria casa, di provare ciò che prova l’Altro.

Nel tuo libro hai dedicato alcune delle tue poesie al mondo LGBTQI (lesbiche, gay, bisessuali, transgender, queer e intersessuali), cominciando con quella in lingua francese…

Mi piacerebbe dire che sono un’umanista. Ma non è vero. Qualche volta mi sento piuttosto misantropa. Però sono una fautrice della libertà di essere ed esprimere se stessi a patto che non nuoccia a qualcun altro. Dove vedo venir meno questo mio ideale, sulla base di tradizioni, credenze, spiegazioni pseudo-scientifiche, viene fuori una bellicosità intrinseca in me.

Voglio dire, la donna è stata scientificamente dichiarata nata per servire l’uomo, gli africani subumani e gli omosessuali un abominio della natura. Ebbene, pare tutta una questione di fonte di informazioni e di possibilità date, oppure tolte.

L’unico abominio è l’oppressione ed è contro questo che combatto, da piccola nel pensiero, da grande con la vicinanza. Non esistono minoranze. Si tratta di una nomenclatura coniata da chi opprime. A quanto mi risulta le donne sono pur sempre la metà del mondo. I non bianchi anche di più. Le persone LGBT fanno parte di tutte le culture e tutti i tempi storici in un numero consistente, la diversità sta soltanto nel trattamento riservato loro. (E per la cronaca; hanno nascosto per un paio di secoli la scoperta che in natura l’omosessualità è all’ordine del giorno di gran parte delle specie).

Quando ti sei avvicinata al mondo LGBTQI e perché?

Non penso ci sia stato un momento preciso in cui mi sono avvicinata al mondo LGBT. Crescendo, mi sono avvicinata al mondo in tutta la sua meravigliosa varietà.

Personalmente ho pianto a leggere il tuo libro, diverse volte. Da autrice, qual è la poesia che ti ha toccato di più?

Premetto che la raccolta consiste di una scrematura violenta di tutto ciò che avevo scritto fino a quel punto, togliendo i prolassi emotivi e i manifesti retorici. E di una fatica difficilmente descrivibile nel farmi inondare da una stessa voce mille volte, per i pochi versi di ogni poesia. Perché non si tratta soltanto di dare voce, ma anche di una catarsi dalle troppe vite umane dentro di me.

Pressoché tutte le poesie hanno un volto preciso. Alcune parlano di speranza senza accennarvi. Altre non hanno più trovato nemmeno il barlume. Sono quelle che più mi si rimescolano dentro. Come “Costretto il fratello” o “J’étais intelligente”. Non sono farina della mia inventiva. Sono il reale vissuto, le parole bisbigliate al mio cospetto. Quindi non ce n’è alcuna che mi abbia toccata di meno in questa raccolta. Quelle le ho lasciate nel cassetto.

Per concludere: nella prefazione del libro, si specifica che le tue poesie non propongono un modo per aiutare i profughi, piuttosto il perché aiutare queste persone. La mia domanda è: perché aiutarli?

Ciò che vedo accadere quando una schiena nuovamente si drizza e uno sguardo diventa limpido, per più o meno autocitarmi, è pura magia. Non ho la fortuna di una fede religiosa. Però incontro parecchia gente che sopravvive davvero solo grazie a quella. E poi mi spiega che faccio parte di quel disegno. Forse si tratta della mia personale forma di misticismo, di connessione. È durissima e bellissima.

Avevo velleità di missionaria, da giovane. Poi ho imboccato altri bivi. Ma davvero la domanda “perché aiutarli?” per me non sussiste. Sono nata fortunata. Ho avuto il mio fagotto di sofferenza per imparare certe cose. Da allora, non voltare le spalle a chi ha subito per me significa riscatto. Mio e della persona alla quale tendo la mano.

Un velo di barba
morbido ma curioso
come il seno appena spuntato
manifesti più che mai
i legami

soppesato
in un mondo che non ti appartiene
hai capovolto
la scelta imposta

insieme ai capelli
hai tagliato i seni
e il futuro di madre devota

Ciò che gli occhi vedono
li fa dolere
ciò che il cuore non vede
li rende ottusi
alla tua rinascita.

 

Lyas
©2016 Il Grande Colibrì

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