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Le regole sono necessarie per vivere in una società in cui tutti possano dire di avere pari opportunità e di poter convivere nel rispetto reciproco. Purtroppo troppo spesso le regole che vengono create e definite con lo scopo di favorire l’uguaglianza e la vita in comune, sono in realtà discriminanti e seguono un modello maggioritario che non lascia spazio per le eccezioni.

Soprattutto quando si parla di regole di genere e di tutte le intricate questioni legate a questo universo, l’opinione pubblica si mostra sempre più restia a cambiare o quanto meno ad aprirsi al dialogo. Il risultato è la persistenza della visione binaria come unica possibilità, semplificando così la vasta e ricca realtà dell’identità di genere.

Questa riflessione è necessaria dopo la notizia degli ultimi giorni della decisione dell’International Association of Athletics Federations (Associazione internazionale delle federazioni di atletica leggera; IAAF) sulla questione di Caster Semenya. Ancora una volta, infatti, le regole non sembrano fatte per condurre la società verso un miglioramento, ma per preservare quei modelli, millenari e sempre uguali a sé stessi, considerati vitali per l’esistenza stessa della società.

Sentenza discutibile

Caster Semenya è una giovane atleta sudafricana, campionessa della corsa olimpionica degli 800 metri finita al centro delle polemiche per il suo iperandrogenismo, una condizione che porta il suo corpo a produrre più testosterone rispetto alle altre donne. Secondo alcuni questa condizione costituirebbe un vantaggio per la performance atletica della sportiva.

Per questo motivo il tribunale arbitrale dello sport qualche giorno fa ha respinto il ricorso di Semenya contro le nuove regole che impongono un limite al livello di testosterone in alcune competizioni femminili: questo significa che se le donne vogliono competere in alcune competizioni, come la corsa 400 metri, sono obbligate a ridurre il loro livello di testosterone nel sangue almeno 6 mesi prima dell’evento. Dunque, nel caso specifico di Caster Semenya, la campionessa olimpionica sarebbe ora costretta ad affrontare dei trattamenti ormonali prima di poter partecipare alle prossime Olimpiadi.

Sebbene il tribunale sia convinto che si tratti di una discriminazione, ha affermato comunque che si tratta di una discriminazione “necessaria, ragionevole e proporzionata“. L’atleta sudafricana, invece, sta purtroppo pensando al ritiro dalle scene, come ha scritto su Twitter: “Io sono e sarò sempre questa“.

Parlare di genere

La situazione è molto complessa e Sarah Shephatds, giornalista sportiva, ne è consapevole: “Non posso accettare però che eliminare qualcuno dalle competizioni solo per qualcosa con la quale è nato sia la soluzione più giusta“.

In un’analisi molto interessante, il giornalista Amit Katwala mette in evidenza il fatto che “non vi è nessuna ragione scientifica per la quale l’iperandrogenismo dovrebbe essere trattato differentemente da altre differenze genetiche che conferiscono performance atletiche migliori“. Ed elenca alcuni casi, come le fibre muscolari di Usain Bolt o i grandi piedi di Micheal Phelps, tutte eccezioni dallo standard fisico “normale” che però non sono state utilizzate per penalizzare gli atleti in questione.

E ancora, nel basket persone con altezze non ordinarie non sono boicottate, ma al contrario messe in risalto per il loro “dono naturale“. Ma per il corpo delle donne spesso sembrano valere altre regole.

Bellezza negata

Ma la domanda che sembra nascere spontanea è: vi è davvero un’unica e sola definizione dell’essere femminile? Non è la natura stessa, per antonomasia, teatro di ricche e infinite combinazioni? La sentenza del caso Semenya suona come una riconferma della normalizzazione forzata negli unici due modelli accettati, uomo e donna, eliminando tutto lo spettro di possibilità offerto dall’idea stessa di genere.

E se da un lato questa sentenza riconferma una tendenza alla chiusura, dall’altro il fatto che sia lo sport stesso a farsi promotore di questa chiusura è molto triste. Infatti per anni lo sport si è fatto promotore della bellezza della diversità, del dialogo per appianare nello sport tutte le differenze, razziali, di genere e di disabilità. Lo sport sembrava essere uno dei pochi luoghi dove davvero l’uguaglianza riusciva a esprimersi.

Casi come questo sono emblematici e sicuramente troppo complessi per avere una sola risposta. Ma è necessario dissentire e meditare su questa sentenza per comprendere quanta strada ci sia ancora da fare per superare i tabù e i limiti dei modelli identitari esistenti.

Antonella Cariello
©2019 Il Grande Colibrì
foto: elaborazione da l3o_ (CC BY-NC-SA 2.0) / da Chell Hill (CC BY-SA 4.0)

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