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Ecco il dilemma: dover scegliere chiedendosi chi sarà il meno peggio, chi ci distruggerà domani. In ogni caso, noi libanesi siamo completamente fuori gioco. Allo spettro della guerra che si diffonde al di sopra delle nostre teste non interessa nulla di quello che pensiamo noi”. Lo scriveva due anni fa la sociologa femminista Dalal Al-Bizri e queste poche parole sintetizzano bene i sentimenti dei libanesi, il loro sentirsi in bilico tra pace e guerra, stretti tra stati che non esitano a ricorrere alla violenza distruttrice (Turchia, Siria e Israele). In Libano si vive col fiato sospeso, governati da fantocci di potenze straniere (in primis Arabia Saudita e Iran) tra cui le tensioni sono in aumento e stanno diventando esplosive.

Di fronte a una classe politica interessata solo a compiacere i suoi referenti esterni, anche a costo di mandare in malora tutto il Libano, la popolazione ha deciso però di ribellarsi: da oltre un mese un fiume di cittadini ha invaso le strade, o per meglio dire ne ha ripreso possesso. Protestano contro una politica corrotta che vive nel lusso, mentre offre servizi pubblici inesistenti, infrastrutture fatiscenti, problemi ecologici. Protestano contro la crisi economica, la povertà e la disoccupazione. Ma protestano anche contro il settarismo, la chiusura mentale, l’arretratezza dei costumi. La piazza libanese chiede uguaglianza tra uomini e donne e prospetta aperture positive anche per le minoranze sessuali. Ha cacciato il premier, ma vuole costruire un nuovo paese.

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Una rivolta che unisce

La vostra omosessualità, le vostre diavolerie non passeranno: state trascinando il paese verso la distruzione” ha gridato a fine ottobre Charbel Khalil, un produttore televisivo molto vicino al presidente democristiano Michel Aoun. L’idea è semplice: per screditare i manifestanti, li si dipinge come manovrati da una potente lobby gay che vorrebbe rovesciare il potere il carica per “omosessualizzare” il paese. Come purtroppo sappiamo bene, l’omofobia è uno strumento molto comune per attaccare gli avversari politici. Talmente comune che inizialmente anche chi scendeva in piazza urlava “luti” (sodomiti) a ministri e leader politici. Poi, però, le cose sono cambiate.

La cosa che ha sorpreso di più è stata la facilità con cui le persone si ritrovano e lottano insieme, anche quando provengono da comunità dipinte come avversarie. Internet si è riempita di fotografie di cristiani e musulmane, donne in abbigliamento sportivo e “uomini barbuti”, femministe e religiosi che marciano fianco a fianco, che si confrontano amichevolmente. In questa massa di persone che si presentano come individui liberi, che rifiutano di essere ridotti all’appartenenza a una confessione o all’altra, ci sono anche moltissime persone LGBTQIA (lesbiche, gay, bisessuali, trans, queer, intersex e asessuali).

libano lgbt

“Rovesceremo l’omofobia!”

La comunità è nel cuore della rivolta – racconta una donna queer, Farah Chamas – Siamo in gran numero nelle proteste e non ce ne stiamo in un angolo. Le persone queer siedono accanto ad altre con background completamente diversi e si parla molto“. Così i manifestanti hanno imparato a non usare più insulti omofobi contro gli avversari, mentre invece diventano sempre più frequenti gli slogan femministi e LGBTQIA-friendly: pura fantascienza fino a qualche settimana fa, oggi succede di vedere la folla applaudire una donna che urla “Rovesceremo l’omofobia, deve finire!“. Anche i muri della capitale Beirut si stanno riempiendo di graffiti contro il governo, ma anche a favore dei diritti delle minoranze sessuali.

C’è una nuova apertura di pensiero, che dobbiamo spingere fino in fondoracconta Hosam Hawwa, un manifestante di 32 anni – Tutte le forme di esclusione cercano di dividerci, ma il settarismo è una fregatura, e anche l’omofobia è una fregatura“. L’ottimismo ha conquistato anche Tarek Zeidan, direttore dell’associazione arcobaleno Helem (Sogno – Protezione per gli omosessuali in Libano), che crede nell’arrivo di una nuova leadership “più disposta ad allentare il guanto d’acciaio sulle questioni sociali e sui diritti umani“.

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Lo spettro della guerra

La strada da fare è sicuramente ancora molto lunga e difficile, ma i segnali positivi non mancano. Se il Beirut Pride è stato annullato a forza lo scorso settembre perché le forze dell’ordine non volevano garantirne la sicurezza, i tribunali hanno più volte ribaltato l’interpretazione passata delle leggi, sostenendo che i rapporti omosessuali non costituiscono un reato, ma sono naturali espressioni d’amore. I pregiudizi e le discriminazioni contro le minoranze sessuali sono comunque ancora molto frequenti e Helem ricorda soprattutto la situazione dei sex worker, che subiscono spesso violenze e ricatti. La speranza, esattamente come tra i manifestanti LGBTQIA in Algeria, è riposta in un futuro più egualitario, più laico, più democratico.

E, ancora come nella comunità algerina, la fiducia nel popolo è molto alta. Il grande rischio arriva da fuori il Libano, un paese su cui le potenze straniere non possono permettersi di perdere il controllo per il grande ruolo geopolitico di questo piccolo stato. Per questo il politologo Karim Émile Bitar lancia un forte monito: “In Libano più che altrove, qualsiasi rivoluzione rischia di essere rapita, confiscata, deviata dai suoi obiettivi iniziali. I rischi di diversione sono molto maggiori in un paese che è un campo di battaglia tra potenze regionali che hanno ben altre priorità che stabilire la giustizia sociale“. Il braccio di ferro tra i manifestanti libanesi e i fantocci che rappresentano Arabia Saudita e Iran determinerà se sul Libano splenderà presto l’arcobaleno.

Pier Cesare Notaro
©2019 Il Grande Colibrì
foto: elaborazione da tongeron91 (CC BY-SA 2.0) / Il Grande Colibrì

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