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Com’era tristemente prevedibile, la conferenza di attivisti LGBTQIA (lesbiche, gay, bisessuali, trans, queer, intersex e asessuali) prevista per luglio in Ghana e organizzata dall’International LGBTI Association (ILGA) non potrà avere luogo. Il governo ha ceduto facilmente alle pressioni delle autorità religiose che volevano fosse negata anche la libertà di riunione, in un paese che già criminalizza per legge l’omosessualità e non punisce i crimini d’odio nei confronti delle persone omosessuali e transessuali. In una dichiarazione alla Thomson Reuters Foundation, il portavoce del ministero del genere, dell’infanzia e della protezione sociale ha spiegato che “la conferenza non si terrà, e basta”, chiarendo che il divieto non è legato all’emergenza coronavirus.

Un breve comunicato dell’ufficio del presidente Nana Akufo-Addo ha confermato il divieto. Sconcerto tra gli attivisti: ILGA non ha voluto commentare, mentre il ghanese Davis Mac-Iyalla, di Interfaith Diversity Network of West Africa (Rete per la diversità interreligiosa dell’Africa occidentale), ha messo in relazione questa proibizione con il Congresso mondiale delle famiglie, che promuove un’agenda anti-LGBT e che si è tenuto lo scorso anno in Ghana: “Il dibattito sembra essere a senso unico. I conservatori mantengono il monopolio nell’organizzare eventi e bloccano quelli con opinioni diverse”.

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Aggressioni e omicidi

Ma nel paese dell’Africa occidentale può accadere ben di peggio che vedersi vietare un incontro pubblico. Ne sa qualcosa Ebenezer Okang, che – dopo aver già subito attacchi due anni fa e all’inizio di quest’anno – ha rischiato di essere ucciso quando dieci giovani invasati, usando la scusa della necessità di un vicino, hanno fatto irruzione in casa sua a Teshie, un sobborgo di Accra, picchiandolo selvaggiamente. Okang, che è stato colpito con bastoni, bottiglie e machete, si è salvato solo grazie all’intervento di un pastore di una chiesa locale che ha radunato alcuni anziani ed è intervenuto a difenderlo.

Poiché al peggio non c’è limite, passiamo in Nigeria, dove un uomo gay è stato attirato in trappola da due criminali che lo hanno ucciso rubandogli i soldi promessi per pagare la prestazione sessuale. I due (One Kito e Chidi) sono stati arrestati, ma è emerso che il crimine commesso potrebbe non essere stato il primo del genere, dato che un testimone ha raccontato di conoscere un uomo sfuggito miracolosamente al loro assalto. Quello che probabilmente non li salverà dalla prigione (in Nigeria compiere atti omosessuali è reato e raramente i crimini d’odio sono puniti) è che Kito sembra essere colpevole non solo di furto e di omicidio, ma anche di aver violentato gli uomini che attirava nella sua trappola.

mani insanguinate sangue violenzaUna lesbica arrestata

Altrove le leggi sono meno criminogene, ma non proteggono le persone omosessuali o le discriminano in modo più sottile. È il caso del Madagascar, dove Domoina, 33 anni, aveva deciso di vivere il suo amore con Fyh, 19 anni, che voleva presentare una denuncia di stupro contro suo padre. È stata arrestata per “appropriazione indebita di un minore (la maggiore età nel paese sudafricano è fissata a 21 anni). La legge infatti punisce “chiunque abbia commesso un atto impudico o innaturale con un individuo del suo sesso, un minore di età inferiore ai 21 anni“.

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Sono stata violentata da mio padre e mio nonno dai 6 ai 16 anni” ha detto Fyh, che ha avuto due aborti (punibili per legge). “Ho incontrato Domoina e le ho parlato dei miei problemi. Stavo per sporgere denuncia contro mio padre per stupro, da quando mio nonno era morto. Mia madre si è spaventata e ha cercato la mia ragazza, che voleva aiutarmi in questo. Trovo assurdo che l’omosessualità sia condannata così severamente, quando è così difficile presentare una denuncia per stupro”. È la prova, secondo la giovane donna, della giustizia a due velocità.

Intanto la comunità è divisa e per la prima volta, accanto all’omofobia diffusa che come d’abitudine si scatena quando i media raccontano un episodio legato al mondo LGBTQIA, sembra farsi strada anche un sentimento diverso. L’annuncio della prigionia di Domoina ha dato origine a molti messaggi di supporto sui social network, in cui i malgasci si fotografano facendo la “L” di “liberazione” con le dita, l’hashtag #FreeKen o #Colombe (traduzione di “Domoina”). La mobilitazione è cresciuta al punto da costituire un comitato di supporto mercoledì. I suoi membri portarono cibo e vestiti alla giovane donna in prigione.

Michele Benini
©2020 Il Grande Colibrì
immagini: elaborazioni da pxfuel (CC0) / da NeosIam 2020 (CC0)

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