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Nanshoku (男色) è uno dei termini con cui ci si riferiva all’omosessualità in Giappone. Mi affascina come questa parola sia composta da caratteri che, presi singolarmente, significano “uomo” e “colore”. Strano come già in passato, in una terra così lontana, l’idea del colore potesse già avere a che fare con l’omosessualità: oggi è proprio la bandiera arcobaleno, col suo insieme di colori, a indicare le diverse identità LGBTQ+. Tuttavia, il termine “colori maschili” (traduzione letterale di nanshoku) faceva riferimento al tipo di atto sessuale compiuto più che a un orientamento sessuale specifico. I documenti scritti e artistici che comprovano questa pratica sono molti. Ma chi ne erano i protagonisti?

Bizzarro a dirsi, ma i primi personaggi dell’omosessualità in Giappone girano attorno al mondo di monaci e samurai.

La prima leggenda nasce sul Monte Koya, a Sud di Osaka. Chikatetsu Monzaemon, famoso drammaturgo giapponese, scriveva che lì sul monte le donne erano “odiate”. Nonostante al giorno d’oggi una frase simile possa risultare misogina, ai tempi Chikatetsu ne scriveva in rime per sottolineare come nel luogo fossero non solo presenti, ma anche incentivati, rapporti sessuali tra uomini.

Si narra che Kukai, monaco buddhista zen, avesse “portato” questa ventata di omosessualità dalla Cina in Giappone, stabilendosi proprio sulla vetta del sacro Monte Koya. Chiaramente questa leggenda nasconde una sorta di omofobia interiorizzata: è pensiero comune sia in Giappone, sia altrove, che dei comportamenti disapprovati socialmente siano spesso di importazione straniera. Risulterebbe ingenuo credere che prima di Kukai non ci fossero rapporti sessuali tra uomini in Giappone.

L’omosessualità tra monaci e samurai in Giappone

Detto questo, la prima testimonianza inequivocabile la troviamo nel Ojoyoshu (“Insegnamenti Essenziali per la Rinascita”) scritto da un monaco della setta buddhista Tendai di nome Genshin nel 985. Da questo scritto possiamo capire che le relazioni sessuali tra alcuni monaci e i propri accoliti erano formalmente accettate. D’altronde occorre ricordare che il buddhismo ha insistito per molto tempo sulla natura malvagia della donna, nonché sulla sua inferiorità rispetto l’uomo: per questo motivo, il sesso tra uomini poteva risultare una strategia per scoraggiare i rapporti sessuali con il sesso opposto tra i monaci. La letteratura del tempo suggerisce che l’omosessualità serviva come un compromesso tra i bisogni sessuali e il voto di castità.

Altre testimonianze ci arrivano dai missionari occidentali in Giappone. È quasi simpatico notare come questi missionari fossero sbalorditi dall’inclinazione dei monaci giapponesi per la sodomia. I monaci avevano un vero e proprio sistema di classificazione che vedeva al centro la figura del “chigo”, un giovane monaco che serviva come accolito. Generalmente si trattava di un ragazzino dall’aspetto androgino che spesso fungeva da surrogato alla donna, ovviamente assente nel mondo dei monaci. Alcune immagini documentano anche la preparazione anale che precedeva l’atto sessuale. La prassi voleva infatti che il chigo preparasse l’ano alla penetrazione con l’aiuto di un altro accolito, che spennellava dell’olio lubrificante nella zona. Il sesso anale era la norma nelle relazioni monaco-chigo e si diceva che più il chigo si preparava devotamente, più sarebbe stato riconosciuto come un prezioso essere umano da proteggere.

L’omosessualità tra monaci e samurai in Giappone

L’omosessualità tra samurai era modellata in gran parte sulla base di quella tra monaci. Un estratto dello “Hagakure” (“Annotazioni su cose udite all’ombra delle foglie”) recita:

“un giovane che manchi di un uomo come partner e che gli serva da fratello maggiore, in senso omosessuale, è come una donna senza il proprio marito”

Tuttavia, in questo caso si tingeva anche di valori militari come la solidarietà, la lealtà e l’obbedienza, tanto cari a una società feudale. Difatti, le relazioni tra il lord e il vassallo assumevano spesso tratti erotici, portando a un’omosessualità strutturata in ruoli gerarchici.

L’omoerotismo tra monaci e samurai aveva perciò una struttura gerarchica basata sull’età (in cui l’uomo adulto assume un ruolo attivo nei confronti di un partner più giovane, passivo) e sul genere (in cui una delle persone coinvolte nell’atto assume il ruolo del sesso opposto, con tanto di vestiario e capigliatura tipicamente femminile, sfociando quindi nel cross-dressing, pratica ancora molto diffusa in Giappone). Il rapporto tra monaco e chigo rientrava quindi spesso in quella che oggi riconosciamo e condanniamo come pedofilia.

Quanto detto è un breve spaccato della questione molto vasta dell’omosessualità nella storia giapponese: le immagini, i testi e i documenti sono molti, ma questo mondo purtroppo è spesso ignorato o addirittura oscurato da moltə giapponesə.

 

 

Dhevan
©2022 Il Grande Colibrì

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