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“Non so cosa fare: se torno mi arresteranno, ma se rimango qui… Non posso stare lontano da casa mia e dalla mia famiglia” dice lo scrittore palestinese Abbad Yahya, 29 anni, che ora si trova in Qatar e non sa quando e se tornerà in patria. Ha saputo che il suo ultimo romanzo, “Jarima fi Ramallah” (Crimine a Ramallah), è stato sequestrato e che il suo editore ha subito un breve arresto. Yahya teme di finire in prigione.

Il procuratore generale Ahmed Barak ha deciso di vietare il libro di Yahya perché utilizzerebbe un linguaggio volgare, oltraggerebbe la morale e la pubblica decenza e danneggerebbe soprattutto i minori. A prima vista, la sua decisione sembra basarsi su alcune espressioni sessuali esplicite e su un personaggio omosessuale, che viene umiliato e torturato dalla polizia. Le reali motivazioni principali, però, potrebbero essere altre.

“Jarima fi Ramallah” è un libro politicamente scomodo, perché denuncia in modo molto diretto il fallimento della leadership politica palestinese, oltre che l’occupazione israeliana. “Come tutte le società della regione – dice Yahya ad Al Jazeera – anche nella nostra società vediamo crescere il fanatismo, l’estremismo e il conservatorismo sociale. Queste tendenze appaiono nella società in un mix di slogan religiosi e nazionalisti”.

Per fortuna a manifestare solidarietà allo scrittore questa volta non sono solo gli attivisti per i diritti umani e la gran parte degli altri intellettuali (con la penosa eccezione di Murad Sudani, segretario dell’Unione degli scrittori palestinesi), ma anche una fetta importante di quella classe politica palestinese criticata, con ottime ragioni, da Yahya. Il ministro della cultura Ehab Bseiso, per esempio, ha chiesto che siano ritirati urgentemente il mandato di arresto e il divieto del libro, che lo stesso politico ha detto di voler leggere.

Anche il dipartimento culturale dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) ha usato parole molto chiare e insolitamente dure: “Parlare di ‘pubblica decenza’ è una forma di manipolazione è una giustificazione inaccettabile perché non c’è nessuna definizione legale o logica. Apre le porte a una censura senza limiti che viola la libertà d’espressione e il diritto alla scrittura creativa” [Wafa].

Il procuratore generale, però, è convinto che il bando “non viola la libertà di opinione e di espressione”: avrebbe potuto dire qualcosa di più incredibile e ridicolo? Ci avevano provato le autorità aeroportuali di Tel Aviv, che, per giustificare l’odissea che avevano fatto subire a una star francese del cinema gay a luci rosse, hanno giurato di seguire regole di sicurezza “indipendenti dall’identità e dalla nazionalità” dei viaggiatori.

L’attore porno Ibrahim Moreno è stato fermato per varie ore nell’aeroporto della città israeliana dove era andato per esibirsi in un night club. Gli agenti lo hanno interrogato con molta durezza per quattro volte, hanno frugato in ogni angolo del suo bagaglio e lo hanno costretto a spogliarsi nudo. Il motivo di tanti sospetti? Solo il suo nome arabo, motivo sufficiente per considerarlo un potenziale terrorista.

“Oggi all’aeroporto di Tel Aviv, mentre tornavo a casa, sono stato umiliato e trattato come un terrorista solo perché mi chiamo Ibrahim. Perché non posso avere un nome di origini arabe? Sono gay, non sono musulmano, non parlo neppure l’arabo” ha scritto Moreno sul proprio profilo Facebook, sotto una fotografia in cui piange per la mortificazione subita. E poi aggiunge: “È come se mi portassi addosso una croce per cui si sentono autorizzati a giudicarmi e umiliarmi” [Ynetnews]. Parole che richiamano, anche se in altri contesti, la denuncia dell’articolo “Mi chiamo Mohamed, sono ateo ed esisto” pubblicato dal Grande Colibrì.

 

Pier
©2017 Il Grande Colibrì

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