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Le elezioni a volte servono a scegliere chi governerà un paese e a volte servono solo a incoronare chi lo governa già: è questo il caso della Russia, dove Vladimir Putin è stato rieletto, seguendo tutte le previsioni, presidente della Federazione Russa con il 76,6% delle preferenze. Cifre che potrebbero far pensare a un voto malamente truccato, e che invece riflettono anche e soprattutto il sostegno – per non dire la devozione – di una larghissima fetta di russi per quest’uomo che sin dal suo primo mandato, nel 2000, continua a far sognare la popolazione di un ritorno a un mitico splendore perduto, a un passato che mischia sfrontatamente zaristi e sovietici.

L’ultima campagna elettorale ha puntato formalmente più sulle lotte esterne, più su un nazionalismo classico, più sull’idea di una nazione assediata che sta tornando a essere l’antica potenza delle generazioni andate, che sulle lotte interne – contro il liberalismo, contro l’occidentalizzazione, contro le élite degenerate, contro le minoranze sessuali – che invece erano state in maniera più martellante al centro della propaganda delle presidenziali del 2012, ma tutti questi temi sono tutt’altro che spariti nella Russia del 2018.

Un’ortodossia fondamentalista

Di fronte a una situazione molto meno idilliaca rispetto a quella presentata dalla propaganda, il discorso del potere politico continua a essere socialmente reazionario e bigotto, e anzi si radicalizza ancora di più. Non è un caso se la stessa traiettoria è seguita dalla grande alleata di Putin, la Chiesa ortodossa russa. Come spiega a Novaya Gazeta il protodiacono e teologo Andrej Kuraev, in rotta con i vertici ecclesiastici, il patriarca Kirill I ha reso l’ortodossia russa sempre più aggressiva: ha organizzato la campagna contro le Pussy Riot, ha fatto introdurre il severissimo reato di offesa ai sentimenti religiosi, ha invitato i fedeli a denunciare pubblicamente chi offende la fede.

Intanto prosperano gruppi ancora più aggressivi. C’è lo Stato Cristiano della Santa Russia, che ha rivendicato apertamente alcuni attentati contro “Matilda” di Alexei Uchitel, un film poco lusinghiero nei confronti dell’ultimo zar, Nicola II. E poi c’è anche il gruppo Sorok Sorokov (“40 volte 40”, espressione russa usata per indicare il gran numero delle chiese ortodosse nel paese), di evidenti simpatie naziste, come testimonia la sua stessa sigla (SS): questa organizzazione ha lo scopo di “picchiare per la gloria di dio ogni nemico della religione ortodossa“. Tra le sue azioni violente, per esempio, c’è l’aggressione contro alcuni ambientalisti contrari alla costruzione di nuove chiese nei parchi di Mosca.

Tutto si svolge alla luce del sole, anche se per le autorità sarebbe molto facile arginare il fenomeno applicando la legge contro l’estremismo” spiega Aleksandr Soldatov su Novaya Gazeta. E allora perché il governo non agisce contro il radicalismo ortodosso violento? Risposta semplice: “Gli estremisti ortodossi fanno comodo al potere“.

Omofobia al servizio del potere

Allo stesso modo fa comodo al potere il presidente della Cecenia, Ramzan Kadyrov, nonostante sia difficile negare la sua campagna di omicidi contro gli omosessuali. Intanto nelle chiese ortodosse risuonano appelli contro le minoranze sessuali come quello di Andrei Kormukhin, leader di SS: “Preparano una nuova Maidan! Al confronto il 1917 [anno della rivoluzione bolscevica; ndr] sembrerà una sciocchezza! Forse non scorrerà così tanto sangue, ma dal punto di vista morale raderanno tutto al suolo! Prenderanno i nostri figli per darli alle famiglie omosessuali! Urleremo di dolore! Ve lo garantisco, piangeremo!“. Sembrerebbero parole deliranti, eppure sono concetti ripresi in uno spot filo-governativo contro l’astensionismo, in cui un uomo russo è costretto a ospitare sotto il proprio tetto e nel proprio stesso letto un ragazzo gay.

L’omofobia è centrale nell’ideologia putiniana per una serie di ragioni: non solo rispecchia un sentimento fortemente diffuso nella popolazione, ma permette all’interno di mantenere salda l’alleanza con un’ortodossia sempre più fondamentalista e all’esterno di presentarsi come una superpotenza morale, capace di contrastare una fantomatica “omosessualizzazione” spinta dall’Occidente e di difendere la cosiddetta “famiglia tradizionale” (che però proprio in Russia è ridotta a pezzi).

E dunque, anche se l’omosessualità è stata decriminalizzata nel 1993 e cancellata dalla lista delle malattie mentali nel 1999, nel 2013 la Russia ha introdotto una nuova legge contro la “promozione” dell’omosessualità ai minori, che rende reato persino esporre una bandiera arcobaleno o dire ai bambini che esistono persone lesbiche e gay. Il governo continua a ripetere che non perseguita le minoranze sessuali, ma intanto tollera lo sterminio in Cecenia e sostanzialmente incoraggia in tutto il paese le violenze, che non a caso sono raddoppiate con le nuove norme anti-omosessuali.

Cambierà qualcosa in Russia?

Queste nuove elezioni, con il trionfo di Putin e il debole risultato (1,7%) di Ksenia Sobchak, l’unica candidata-fantoccio favorevole a riconoscere i diritti delle persone LGBTQIA (lesbiche, gay, bisessuali, trans, queer, intersex e asessuali), non porteranno nulla di buono. Anche perché il potere politico e il potere religioso continuano a non dare risposte alle necessità reali della popolazione e non sanno offrire altro che la promessa di un orizzonte sempre più lucente, ma sempre più lontano e improbabile. E quindi hanno sempre più bisogno di indicare un capro espiatorio verso cui convogliare la rabbia per il presente.

A tirare troppo la corda, però, si finisce per spezzarla. E a quel punto potrebbe avere ragione Sergei Shnurov, la più grande rockstar russa: “Se chiedi alla gente se gli piace il palazzo dall’altra parte della strada, il 90% ti dice di sì. Ma se poi arriva un bulldozer per buttarlo più, nessuno protesterà”. E allora il palazzo di Putin e di Kirill I saprà resistere?

Pier Cesare Notaro
©2018 Il Grande Colibrì

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