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Non è semplice capire cosa è successo e cosa sta succedendo in Cecenia, la repubblica del Caucaso settentrionale parte della Federazione russa. Le notizie sono molte e a volte confuse o contraddittorie, ma è necessario fare il punto e cercare di avere il quadro più preciso possibile della situazione per agire nel migliore dei modi, soprattutto tenendo conto dei molteplici interessi in gioco che non vedono l’ora di strumentalizzare fatti, ricostruzioni e opinioni.

La repressione di massa

Il periodico russo Novaja Gazeta è stato il primo giornale a denunciare quella che ha definito una “repressione di massa di ceceni sospettati di avere un orientamento omosessuale” con due articoli firmati da Elena Milašina [Il Grande Colibrì]. Mettendo insieme anche quanto racconta Svoboda, la filiale russa di Radio Free Europe, in un dettagliato reportage, l’ondata persecutoria sarebbe iniziata a dicembre dell’anno scorso, quando la polizia avrebbe trovato sul cellulare di un uomo un’app per incontri gay (probabilmente Hornet), poi si sarebbe placata a gennaio, per esplodere con ancora più violenza a marzo.

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Le forze dell’ordine avrebbero rapito, a volte con adescamenti online, altre con irruzioni in casa o sul posto di lavoro, i contatti telefonici del primo uomo arrestato, e poi i loro contatti, andando avanti a cascata, senza preoccuparsi molto del reale orientamento sessuale delle persone. Decine di uomini sarebbero state imprigionate insieme a consumatori di droga e piccoli delinquenti, in condizioni orribili: i presunti gay avrebbero subito torture, stupri con oggetti, scosse elettriche, umiliazioni e minacce di morte costanti. Inoltre sarebbero stati costretti a dormire nudi sul pavimento e sarebbero stati lasciati senza cibo, sfamandosi solo grazie agli avanzi lasciati dagli altri detenuti.

I luoghi della persecuzione

Novaja Gazeta ha denunciato sin dall’inizio l’esistenza di una prigione segreta in una ex caserma di Argun, una cittadina di quasi 30mila abitanti nella Cecenia centrale. Alcune organizzazioni per i diritti umani avevano accennato piuttosto vagamente all’ipotesi che potesse esistere un secondo centro di detenzione e la conferma è arrivata da Svoboda, secondo cui la polizia starebbe usando anche un carcere segreto a Tsotsi-Yurt, un villaggio a meno di una decina di chilometri da Argun. Elena Milašina, intervistata dall’Huffington Post, ha poi parlato di cinque prigioni, senza dare ulteriori dettagli.

Nessun reportage dalla Cecenia parla invece di campi di concentramento, come riportato da molti media occidentali utilizzando elementi inventati da un blog russo, come ricostruito dal Grande Colibrì. Per evitare che elementi immaginari siano utilizzati per screditare tutta la denuncia, le organizzazioni internazionali più importanti hanno ovviamente evitato di seguire questa deriva sensazionalistica, invitando – come ha fatto per esempio il portavoce di Amnesty International Alexander Artemyev – a fare più attenzione nel parlare impropriamente di “campi di concentramento”.

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I morti e la fossa comune

Secondo le diverse ricostruzioni, l’ondata repressiva della polizia cecena avrebbe causato diverse morti. Novaja Gazeta ha scritto di almeno tre vittime, mentre l’autrice degli articoli ha detto all’Huffington Post che secondo altre informazioni sarebbero 50, uccisi nell’arco di due mesi. Svoboda non dà indicazioni precise sui numeri, ma ritiene che gli omicidi siano avvenuti a partire da marzo di quest’anno, mentre Kavkazskiy Uzel riporta voci su almeno 20 uomini, tra cui un importante imam di Groznyj, ammazzati alla fine dell’anno scorso e seppelliti in una fossa comune in un cimitero nella periferia della capitale cecena.

Le divergenze sono spiegate dagli stessi giornalisti: questi omicidi sarebbero poco pubblicizzati sia perché sono compiuti al di fuori di qualsiasi quadro legale sia perché le stesse famiglie degli uccisi preferirebbero tacere piuttosto che macchiarsi della vergogna di avere un parente omosessuale. Avere informazioni precise, in un contesto del genere, è estremamente difficile, se non impossibile. Lo stesso Kavkazskiy Uzel ricorda come stia riportando voci e non notizie verificate, mentre Svoboda sottolinea come non ci sia certezza neppure sulle modalità delle morti: secondo il sito, probabilmente sono stati uccisi di botte “accidentalmente” o sono stati consegnati alle famiglie con l’ordine di ammazzarli.

Il responsabile di un’organizzazione non governativa locale, citato da Svoboda, afferma: “Ora è difficile capire dove sta la verità e dove la menzogna”. Anche per questo i media dovrebbero attenersi strettamente ai fatti riportati dalle fonti, evitando di introdurre elementi fantasiosi che servono solo a intorbidire le acque e a ostacolare la ricerca della verità.

Il contesto ceceno

Svoboda dà voce a diversi omosessuali ceceni che, raccontando le proprie esperienze anche al di là dell’ultima ondata repressiva, aiutano a farsi un’idea precisa della situazione nella repubblica caucasica. I principali problemi per i gay nel paese sono rappresentati dalla polizia e dalle famiglie. Le forze dell’ordine hanno l’abitudine di perseguitare gli omosessuali, anche se di solito si “limitano” – se così si può dire – a picchiarli e minacciarli di morte o di svelarne pubblicamente l’orientamento, per poi estorcere il denaro: molte persone sono state ridotte sul lastrico per pagare il silenzio della polizia.

Ma molte famiglie sono anche peggio, e questo spiega perché la minaccia di outing sia temuta anche più di quella di morte: i “delitti d’onore” sono frequenti e molti omosessuali sono uccisi dai propri stessi familiari. Negli omicidi denunciati, alcune o forse tutte le persone, come suggerisce Svoboda, potrebbero non essere state uccise direttamente da agenti di polizia, ma consegnate da questi ai parenti, ben sapendo che “li manderanno in quel posto da dove non potranno tornare”, per usare l’agghiacciante espressione utilizzata dal portavoce del governo ceceno, Alvi Karimov.

Smentite poco convincenti

Proprio Karimov ha subito smentito le notizie pubblicate da Novaja Gazeta, anche se in modo poco convincente. Dmitry Peskov, portavoce di Vladimir Putin, ha affermato: “Ancora non ci sono prove. Abbiamo qualche dato anonimo che non aiuta a chiarire la situazione”. Concordando con il primo ministro ceceno Ramzan Kadyrov sul fatto che “questi reportage distorcono la realtà, sono pura diffamazione”, Peskov ha fatto notare beffardamente e assurdamente che nessuno è andato dalle forze dell’ordine a denunciare queste presunte violenze: “Si sa, quando si viola una legge, i cittadini vanno dalla polizia e sporgono denuncia” [RIA Novosti].

Oggi il dito è puntato contro i giornalisti di Novaja Gazeta, definiti come “nemici della nostra fede e della nostra patria” tanto da Kadyrov quanto da un documento in cui i leader religiosi ceceni hanno chiesto il castigo della legge e di Dio contro chi avrebbe riportato notizie infondate [Il Grande Colibrì]. Dzhambulat Umarov, ministro ceceno per la politica nazionale, le relazioni esterne, la stampa e l’informazione, ha chiesto le scuse “davanti al popolo ceceno”, spiegando che “se ci sono violazioni dei diritti umani, comincino a trovarne le prove, si rivolgano alle strutture preposte, facciano un’inchiesta e solo dopo scrivano, non il contrario”.

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Le denunce

Intanto sono partite anche le prime denunce. Se il consigliere ceceno per gli affari religiosi Adam Shakhidov vuole portare i giornalisti davanti al giudice con l’accusa di diffamazione, più interessante è la denuncia depositata a Mosca da Nikolay Alekseev, leader dell’associazione LGBTQIA (lesbiche, gay, bisessuali, transgender, queer, intersessuali e asessuali) GayRussia.ru.

L’organizzazione non solo ribadisce che le notizie riportate dai giornali sarebbero false, ma si sente danneggiata dal fatto che Novaja Gazeta ha scritto che la repressione sarebbe esplosa dopo che Alekseev avrebbe chiesto di svolgere un Gay Pride nel Caucaso. Ora GayRussia.ru chiede al giornale di scusarsi, di smentire tutto e di pagare un milione di rubli (circa 16.600 euro) per i danni morali, come riporta la stessa Novaja Gazeta.

Cosa fare

Il quadro, insomma, è molto cupo e complesso e purtroppo esiste davvero il rischio di comportarsi “come mammut in un negozio di porcellane”, per usare l’espressione di Dzhambulat Umarov. Questo non significa che bisogna tacere, ma semplicemente che dobbiamo chiedere con estrema determinazione che vengano svolte indagini serie e approfondite e che siano individuati gli eventuali colpevoli dell’ultima ondata repressiva, ma anche che ci sia un reale impegno per arginare il problema endemico della persecuzione delle persone omosessuali e dei “delitti d’onore”. Ogni fuga in avanti, soprattutto se basata su notizie prive di fondamento, rischia solo di spianare la strada all’insabbiamento di tutto il problema.

Ed è un pericolo gravissimo, se pensiamo che la Rossiyskaya LGBT-set’ (Rete LGBT russa) solo quattro giorni fa ha fatto sapere che due delle persone che l’avevano contattata in cerca di aiuto hanno smesso di dare proprie notizie improvvisamente e senza motivazioni.

L’associazione, per fortuna, ha anche dato una buona notizia a Meduza: tre ambasciate di paesi dell’Unione Europea hanno promesso di velocizzare al massimo l’iter per concedere il visto agli omosessuali ceceni, grazie alle pressioni dell’opinione pubblica. In generale, la politica di chiusura nei confronti dei richiedenti asilo mostra la sua durezza: senza questa ondata repressiva, per i gay della regione – come spiegano gli stessi attivisti della rete – sarebbe stato estremamente difficile chiedere asilo nell’UE, nonostante già vivessero in una situazione estremamente drammatica.

 

Pier
©2017 Il Grande Colibrì

 

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