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Il cielo è più dolce della terra e io voglio il cielo, non la terra“. Queste sono, a quanto pare, le parole scritte su Facebook da Sarah Hegazi quando ancora tentava strade per sopravvivere. La speranza del cielo è la certezza che il Paradiso sia lì da qualche parte, altrove, e che l’Inferno per alcuni è già qui su questa terra. Immaginiamo Sarah implorare perdono a Dio, desiderare che Lui l’accolga in Paradiso come martire; sperare che comprenda, come Lui sa fare nel suo essere Assoluto, che lei voleva solo mettere fine alle sue sofferenze.

Forse Sarah non ha invocato Dio, ha solo desiderato il cielo, senza connetterlo a quello che aveva imparato sulla religione. Magari era anche arrabbiata con Dio, si chiedeva per quale motivo avesse imposto agli uomini di creare religioni piene di regole e di restrizioni che lei, come tante persone, non riuscivano a mettere in pratica. Si chiedeva per quale motivo Dio fosse così pronto a giudicare e punire coloro i quali si allontanavano da una via retta, unica e uguale per tutti, senza possibilità di riflessione e libero pensiero e azione. Si sarà chiesta tante volte perché Dio avesse permesso ai suoi carcerieri di violentarla e umiliarla ripetutamente.

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Ma perché era finita in carcere? Per quale presunta violazione della morale? Quale Islam aveva conosciuto Sarah? ci chiediamo. Non sappiamo, ma di certo non quello della raḥma (رحمة; misericordia), dell’amorevole tenerezza, della comprensione e dell’accoglienza. Se è vero che la fonte dell’Islam sia Dio, è vero che Egli ha fatto scendere il Corano sul Profeta, un uomo, affinché lo trasmettesse ad altri esseri umani. Sono le persone che hanno il dovere di portarlo nelle loro vite, di farne testimonianza, di trasmetterlo alle prossime generazioni.

Nella tradizione Islamica Dio ha novantanove bei nomi: sono qualità che Lui possiede in senso assoluto e a cui l’essere umano si ispira per migliorare il proprio comportamento. Ci chiediamo allora per quale motivo in queste ore tra alcuni musulmani e musulmane in Italia si sia scatenato il giudizio più spietato, si siano sprecate parole per sentenziare sul destino dell’anima di questa ragazza.

Togliersi la vita da una prospettiva islamica, come da altre prospettive religiose, in arabo è haram (حرام), una parola che ha un significato più ampio, ma che qui useremo nell’accezione di peccato. Il peccato è un atto che riguarda l’individuo e il suo intimo rapporto con se stesso e con quello che immagina essere Dio. Il peccato è una mancanza, è un’azione che compiamo prima contro noi stessi, a nostro danno o a danno di altri.

cappio impiccato suicidio arcobalenoFra i peccati più comuni, ci sono omicidio, stupro, violenza fisica e psicologica, bugia, furto. Perché? Perché ognuna di queste azioni si verifica quando abbiamo perso contatto con la nostra umanità, quando ci separiamo dalla nostra essenza, quando, nel linguaggio di chi segue alcune tradizioni religiose, dimentichiamo Dio. Il suicidio è forse il culmine di questo allontanamento, è un atto di estrema violenza, è rifiuto della vita che ci è stata donata. Nessuno comprende che grado di volontà ci sia in un’azione del genere. Nessuno, a meno che non si sia trovato in una situazione simile, sa quale sofferenza prova l’anima schiacciata e imprigionata da una forza oscura che spinge a una tale atrocità.

Che mondo avrebbe trovato Sarah se fosse sopravvissuta? Un mondo che l’avrebbe giudicata e disprezzata più di quanto faceva prima. Un mondo che l’avrebbe allontanata, isolata e umiliata, perché, oltre ad essere quella che aveva oltraggiato l’onore della famiglia, sarebbe stata anche quella che aveva oltraggiato il dono della vita. Avrebbe trovato persone pronte ad accoglierla e sostenerla, ma non forti e numerose abbastanza.

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Sarah è morta. L’ha uccisa un sistema, quello egiziano, che della paura e della repressione ha fatto la normalità. Una repressione sistematica e capillare contro tutti e tutte coloro che portano avanti quelle battaglie che, in un paese come l’Egitto, continuano nonostante restino in mano, e nella bocca, di pochi e poche. Lo stato non solo si erge a decisore politico esclusivo e ha il diritto di decidere chi deve o non deve far parte della vita politica, ma si arroga anche il potere di decidere come debbano comportarsi i propri cittadini nella loro vita privata, al di là delle leggi. Il potere rappresenta l’abilità che esso ha di sfruttare di fatto le contraddizioni per dividere la società sventolando, a seconda delle situazioni, la bandiera di una non precisata moralità ed eticità.

È qui che si combatte la battaglia del lecito e del non lecito, del haram o dell’halal (حلال; lecito), che, successivamente, si traduce in una polarizzazione sociale all’interno della quale si inserisce una vecchia e vuota dialettica che ha portato il paese in una spirale di violenza senza precedenti. Tutto è legato al destino e alla legittimità del potere ricorrendo a un becero cerchiobottismo occasionale che mostra le sue numerose facce a seconda dell’interlocutore che si ritrova davanti. Poco importa quale faccia interporre e a quale costo, l’importante è mantenere una certa virtù che consenta di mantenere il tutto all’interno di certe norme.

mano henne donna arabaUn sistema che si presenta laico all’occhio “occidentale”, perché la loro lotta al “terrorismo” lava la coscienza da crimini non tanto diversi da quelli del fondamentalismo; sono musulmani “duri e puri” quando una società conservatrice come quella egiziana si indigna per le azioni come quelle per cui Sarah è entrata in un carcere egiziano e – probabilmente – non ne è uscita più come era prima. Tanto sono pesate quelle torture sul suo corpo e troppo pesanti sono state le ferite inflitte da chi, probabilmente, considerava compagne di prigione.

Era già successo, con un fine fortunatamente diverso, allo scrittore Ahmed Nagi nel 2016, quando il regime egiziano lo imprigionò dopo che un comune cittadino, un avvocato, lo aveva accusato di avergli causato malessere fisico (palpitazioni e disfunzioni della pressione sanguigna) dopo aver letto una parte del suo libro “Istikhdam al hayah” (Vita: istruzioni per l’uso) in cui si raccontava esplicitamente una scena di sesso.  Lo scrittore fu imprigionato con l’accusa di aver turbato l’etica e la morale dello stato e costretto a lasciare l’Egitto appena un anno dopo che il travel ban fosse terminato.

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È successo al nostro Patrick Zaki, anche lui difensore dei diritti LGBTQIA (lesbiche, gay, bisessuali, trans, queer, intersex e asessuali) e arrestato all’aeroporto del Cairo con l’accusa di far parte di un’organizzazione terroristica: da più di centro giorni si trova insieme alle migliaia di attivisti e attiviste nelle carceri egiziane.

È vero, Sarah è morta sola. Sola nel suo esilio in Canada, lontana dal suo luogo, lontana dai suoi amici e amiche più care. Probabilmente a nulla serviranno le bandiere arcobaleno che migliaia di attivisti stanno ponendo, come gesto simbolico, per ricordare la sua lotta, ma è troppo lo sgomento e troppa la vergogna per non esser stati in grado di difendere l’ennesima vittima di un mondo che ha da tempo perso la “retta via” e si affida sempre più a gesti e parole spesso prive di logica. Ci infastidisce guardare anche la sua foto, perché non abbiamo il coraggio di ammettere che Sarah è morta. L’abbiamo uccisa tutti noi.

Rosanna Maryam SirignanoMattia Giampaolo
©2020 Il Grande Colibrì
immagini: elaborazione da pxfuel (CC0) / Il Grande Colibrì / elaborazione da needpix (CC0)

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