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Se la comunità tunisina LGBTQIA (lesbiche, gay, bisessuali, trans, queer, intersex e asessuali) ha buone ragioni per essere felice per le vittorie degli ultimi giorni (la sentenza che protegge l’esistenza di un’associazione arcobaleno e il premio consegnato al presidente di Damj), non bisogna dimenticare che, nonostante una costituzione post-rivoluzione notevolmente avanzata, l’articolo 230 del codice penale continua a permettere a polizia e giudici di indagare e condannare le minoranze sessuali nel paese. E continua a essere utilizzato per intimidire, ricattare e punire le persone omosessuali o considerate tali.

Un saggio fondamentale

Proprio all’articolo 230 è dedicato un interessante saggio breve (disponibile in arabo, francese e inglese), ad opera di Ramy Khouili e Daniel Levine-Spound: “Articolo 230: una storia della criminalizzazione dell’omosessualità in Tunisia”. Il volume cartaceo è in distribuzione gratuita dalla fine di marzo, mentre da giugno potrà essere scaricato anche da internet.

Il libro è stato presentato una prima volta a Tunisi in un evento LGBTQIA e poi il 19 aprile durante un incontro-dibattito nell’ambito dell’iniziativa di cinque giorni “Couleurs d’avril : Dialogue entre les deux rives” (Colori d’aprile: dialogo tra le due rive), progettata per “difendere le libertà individuali e accompagnare le associazioni per i diritti delle persone LGBTQ++” nell’auditorium del Centro culturale francese della capitale, alla presenza di oltre 120 persone.

Dei due autori era presente Khouli (essendo Levine-Spound statunitense e impossibilitato a presenziare), che è stato di gran lunga l’oratore più interessante e più apprezzato dell’incontro: nei suoi brevi ma incisivi interventi ha raccontato in breve, con anche qualche curiosità inaspettata, come si è originato questo articolo del codice penale e come mai resista in Tunisia a otto anni dalla rivoluzione e dalla nuova costituzione del 2015, con la quale è in palese contrasto.

Un articolo, due versioni

Per cominciare vale la pena di ricordare che l’articolo 230 non è un semplice codicillo del codice penale: sono due. La versione del testo originale, scritta in francese dalla commissione creata per redigere il codice nel 1913, non parla infatti di omosessualità ma di sodomia, senza specificare se gli atti per i quali è prevista la pena di tre anni siano commessi da persone dello stesso sesso o no. La versione araba, che avrebbe dovuto tradurre la norma, punisce invece l’omosessualità maschile (لواط, liwat) e femminile (مساحقة, musahaqa).

Fatta questa precisazione, occorre notare che fino ad allora il diritto tunisino non prevedeva alcuna discriminazione per le persone omosessuali (e neanche per i “sodomiti”) e che, anzi, nella costituzione promulgata dal bey Muhammad III Al-Sadiq nel 1861 (prima costituzione del mondo arabo) erano previste regole estremamente liberali: “uguaglianza davanti alla legge indipendentemente dalla residenza, dalla posizione sociale e dalla religione per tutti i tunisini“.

coppia gay arabi sesso

Da dove arriva l’articolo?

La genesi dell’articolo che criminalizza omosessualità e sodomia ufficialmente è ignota, ma gli autori hanno ben delineato lo scenario in cui ha lavorato la commissione istituita dal protettorato francese, composta da sei rappresentanti del residente generale francese e da due tunisini, un giudice di scuola hanafita e uno di scuola malikita (due scuole interpretative del sistema legislativo-religioso islamico).

La sorpresa è che, con ogni probabilità, l’inserimento della norma, assente nella prima bozza del codice, si debba agli occupanti, che volevano da una parte “rispettare le tradizioni” locali e dall’altra adeguare il testo al codice thailandese, scritto con l’ausilio del francese Georges Padoux, che aveva operato in precedenza a Tunisi e aveva mantenuto contatti con alcuni diplomatici membri della commissione.

In più i francesi volevano evitare che il loro esercito venisse contagiato da queste “perversioni locali” (un altro incubo era la prostituzione) e divenisse preda della “sessualità esorbitante e aberrante” che i responsabili coloniali attribuivano all’impatto del calore soffocante africano sulla libido degli uomini e delle donne (sic!).

Le responsabilità di oggi

Se da una parte risulta chiaro come l’articolo 230 sia un prodotto coloniale – un po’ come quello lasciato in eredità dai colonizzatori inglesi – bisogna però ammettere che giudici e polizia hanno apprezzato e apprezzano tuttora una norma che permette loro un’ampia possibilità di manovra: se fino al 2011 mancano statistiche su quante persone siano state arrestate e condannate sulla sua base, l’articolo 230 continua a essere invocato dalle forze dell’ordine e utilizzato dai magistrati anche dopo che la Tunisia ha intrapreso il suo percorso di democratizzazione, unica primavera araba ad aver proseguito a germogliare e fiorire.

Michele Benini
©2019 Il Grande Colibrì
foto: Il Grande Colibrì

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