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Nel vastissimo territorio dell’Amazzonia, 6 milioni di chilometri quadrati abitati da un’infinità di popolazioni indigene, attraversati da 400 lingue ufficiali e chissà quanti dialetti, parlare di omosessualità è quasi un miraggio. La discriminazione è particolarmente forte, c’è resistenza di fronte a quello che viene chiamato il fenomeno dell’occidentalizzazione, che per molte popolazioni indigene, tra le altre cose, avrebbe importato nella zona anche l’omosessualità.

Tuttavia in Colombia, a ridosso del confine con il Perù e il Brasile, esiste una comunità che pare aver rotto i resistenti pregiudizi contro le persone LGBTQIA (lesbiche, gay, bisessuali, trans, queer, intersex e asessuali). Questo insediamento, che conta poco più di mille abitanti, si chiama Nazareth ed è diventato una piccola oasi sicura per i ragazzi gay nativi del posto, ma anche per quelli provenienti da altre comunità indigene a loro ostili.

Le cose cambiano

Fino a pochi anni fa a Nazareth gli omosessuali (“guechi” nella locale lingua tikuna) erano visti come un errore della natura o ragazzi che seguivano tendenze della “gente bianca”, e venivano rifiutati dalla famiglia e puniti dalla comunità. Solitamente erano costretti a sopportare punture di insetti, soprattutto morsi particolarmente dolorosi di una formica gialla. Queste punture dovevano servire ad aggiustargli i pensieri e virilizzarne il fisico. Altre volte, invece, erano costretti a lavorare la terra o costruire canoe per dare prova della loro mascolinità.

Con l’inizio del ventunesimo secolo, però, “c’è stato un enorme cambiamento da parte delle famiglie e della comunità verso la non discriminazione”, spiega Alex Macedo, portavoce del consiglio indigeno. Ma come è intesa questa “non discriminazione”? Ebbene, l’apertura verso le persone LGBTQIA non è totale come potremmo immaginarci.

Junior, Nilson e Saúl, tre ragazzi gay nati e cresciuti a Nazareth, spiegano che adesso sono considerati parte della comunità, ricoprono posizioni importanti nella vita sociale e di gruppo, possono rivelare la loro omosessualità, ma a condizione di “comportarsi bene”: ad esempio, devono mantenere un atteggiamento sobrio, non baciarsi in pubblico, non abitare con i propri partner. Vivere così è indubbiamente faticoso, è una sorta di libertà a metà, ma, come racconta Nilson, non ha niente a che vedere con i tempi passati, quando suo padre lo aveva cacciato di casa. Oggi è tra la sua gente, abbraccia una vita discreta ma che gli garantisce l’accoglienza della sua comunità.

Comunità e identità

Sono sicura che a molti di noi possa suonare strana una situazione simile, ma non dimentichiamoci che tra le popolazioni indigene è di vitale importanza essere parte di una comunità, specialmente di quella nativa. Esserne fuori, a volte, equivale a perdere tutto, anche la propria identità. E se pensiamo che nel resto delle comunità amazzoniche parlare di omosessualità non è assolutamente possibile, Nazareth diventa davvero un’oasi felice.

Certo, per adesso non si può pensare a gruppi LGBTQIA strutturati, all’attivismo, alla promozione di istanze politiche. Tuttavia, le persone LGBTQIA possono riconoscersi in un “noi”, che altrimenti perderebbero per sempre. E chissà che non sia un primo importantissimo passo in avanti, in una vasta zona così impregnata dalla cultura ancestrale.

Ginevra Campaini
©2020 Il Grande Colibrì
immagine: elaborazione da Secretaria Especial da Cultura do Ministério da Cidadania (CC BY 2.0)

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