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Il 63% degli stupri non viene denunciato perché le vittime hanno paura delle ripercussioni sulla propria famiglia, specie quando i carnefici sono parenti stretti (33% dei casi in Italia); negli USA una ragazza su 4 e un ragazzo su 16 vengono violentati durante i loro studi all’università e in caso di denuncia solo il 3% degli stupratori finisce effettivamente in prigione, mentre al restante 97% non viene applicata nessuna forma di punizione.

Cultura dello stupro

Visti i dati sconfortanti non ci resta che elencare i nomi delle vittime – non solo vittime di violenza, ma anche sottoposte a un processo mediatico che le rappresenta come insicure in cerca di fama e denaro: Jessica Leads e Juanita Broaddrick hanno denunciato Donald Trump e Bill Clinton perché volevano distruggere la loro carriera politica; Anita Hill e Christine Blasey Ford hanno accusato Clarence Thomas e Brett Kavannaugh perché non volevano che un giudice conservatore venisse eletto alla Corte suprema; Audrie Pott si è suicidata a 16 anni perché in fondo sapeva di aver voluto che il suo compagno di scuola facesse sesso con lei.

Questa retorica del “sono ragazzi, che ci vuoi fare” preferisce screditare le donne (ma anche gli uomini) per una birra di troppo o per una gonna troppo corta e rientra in quella che viene comunemente definita “rape culture” (cultura dello stupro): lo stupro viene legittimato all’interno del contesto culturale che abita, quindi le vittime di stupro vengono considerate colpevoli di quanto hanno subito. Questo avviene anche tramite espressioni misogine (“Se l’è cercata, è una puttana”), l’oggettificazione del corpo femminile e la critica alla liberalizzazione dei costumi portata avanti dal movimento femminista.

Vittime insicure

All’interno dei mass media viene spesso utilizzata per mettere in cattiva luce le vittime invertendo quindi i ruoli. Per prima cosa chi ha subito violenza viene ritratta come una persona debole e insicura: le vittime, com’è normale che sia, non ricordano l’evento traumatico nei minimi particolari e per questo i giornali spesso fanno leva sui ricordi confusi per sostenere che la vittima si è inventata tutto o che ha confuso l’identità del criminale.

L’avvocato di Clarence Thomas, ad esempio, ha sostenuto davanti al tribunale che Anita Hill si riferiva in realtà alle scene del film “L’esorcista”. Anche Christine Blasey Ford, a detta del canale televisivo Fox News, avrebbe scambiato Brett Kavannaugh per un suo presunto sosia.

Vittime screditate

Dopo aver screditato la vittima, i media passano a mettere in luce l’immagine del “bravo ragazzo” agli occhi del pubblico televisivo: nelle sue interviste in seguito alle accuse di molestie, Bill Clinton è sempre stato affiancato dalla moglie, come un buon marito fedele che non tradirebbe mai la sua compagna di vita.

Come se non bastasse, ci si accanisce nuovamente sulla vittima sostenendo che in realtà sia stata pagata da qualcuno per distruggere pubblicamente il presunto carnefice o perché in realtà voleva ottenere la fama televisiva. Asia Argento, ad esempio, è stata fortemente criticata per aver denunciato Harvey Weinstein solo dopo diversi anni, come se la decisione di denunciare uno stupro sia una scelta semplice che qualcuno può permettersi di giudicare. “Aiuto! È tornata Asia Argento, la donna violentata da chiunque, minori, maggiori, manca un prete“: questo il titolo dell’articolo uscito sul Corriere Quotidiano.

Anche quotidiani nazionali come Libero utilizzano un linguaggio misogino che scredita la vittima piuttosto che lo stupratore. Roberto Alessi, parlando delle accuse di stupro nei confronti del calciatore Cristiano Ronaldo, scrive testualmente: “Piatto ricco mi ci ficco?“, sostenendo che Kathryn Mayorga avrebbe reso pubbliche le accuse di violenza sessuale solo per ottenere un compenso in denaro.

Cosa dice la scienza

La scienza, per fortuna, ha chiarito il motivo per cui le vittime non ricordano molti dettagli anche se importanti e perché spesso le denunce vengono sporte dopo diversi anni. Richard Hungair, neuroscienziato all’Università Hopkins di Medicina, spiega che in casi di pericolo il cervello umano attiva una serie di meccanismi di sopravvivenza, concentrandosi in particolare sull’aggressore: per questo la tesi dello “scambio d’identità” o della confusione nelle vittime è insostenibile.

Per quanto riguarda le denunce a distanza di diversi anni dall’evento, si parla molto spesso di “secondary victimization” (vittimizzazione secondaria): se il carnefice è un parente stretto, denunciare è quasi impossibile, perché in molti casi si tende a incolpare sé stessi per l’accaduto piuttosto che il proprio marito o fratello, e anche quando si trova il coraggio di denunciare non si viene supportati economicamente e psicologicamente tramite adeguate strutture.

Quando lo stupratore è una figura pubblica importante, invece, entrano in gioco le cosiddette “dinamiche di potere“: nel caso Weinstein molte donne non sporsero denuncia perché Harvey era una delle figure più importanti nel mondo cinematografico e denunciarlo avrebbe significato rinunciare alla propria carriera, per non parlare del fatto che moltissimi suoi collaboratori e importanti star del cinema erano a conoscenza dei fatti, ma nessuno ha mai infranto il clima di omertà che dilaga ancora oggi nel mondo dello spettacolo.

Primato in pericolo

La violenza sulle donne non è solo frutto di un’insoddisfazione personale o di coppia, ma affonda le radici in modelli culturali che distorcono la figura maschile: negli ultimi 50 anni le donne hanno portato avanti moltissime battaglie, liberalizzando i costumi e permettendo a noi tutte di avvicinarci alla parità dei sessi. Questo progresso è andato a scontrarsi con il ruolo storicamente dominante dell’uomo che molto spesso vede la violenza sessuale come un modo per riappropriarsi del suo primato.

La retorica che giustifica questi atti, o comunque li tollera, è però dannosa nei confronti delle battaglie per i diritti delle donne, ma soprattutto crea un clima di omertà che spinge le vittime a non denunciare l’accaduto per paura della stigmatizzazione sociale.

Elisa Zanoni
©2018 Il Grande Colibrì
foto: Diana e Rios (CC0)

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