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Gli episodi di intolleranza e discriminazione aumentano di giorno in giorno. Ma per il governo giallo-verde parlare di emergenza razzismo è assolutamente esagerato.

Botte e spari

Cronache di ordinario razzismo è un sito di informazione e approfondimento nato nel marzo 2011 con l’obiettivo di combattere ogni forma di discriminazione. All’epoca, ricordano gli amministratori, i pregiudizi e le discriminazioni nei confronti di migranti, cittadini stranieri, rom e rifugiati “stavano diventando sempre più frequenti nel dibattito pubblico, condizionando in modo significativo i comportamenti sociali”.

A sette anni di distanza le cose non sembrano affatto cambiate, anzi i casi di intolleranza sono sempre più numerosi e sfociano sempre più di frequente in episodi di violenza. In un articolo pubblicato a inizio mese e significativamente intitolato “Grilletto facile e di altre aggressioni. La cronaca che parla da sé”, trovano posto una serie di agghiaccianti fatti di cronaca che vedono protagonisti “normali cittadini” impegnati in una sorta di caccia allo straniero.

Si va dagli insulti di stampo razzista ai pestaggi, fino ad arrivare alle sparatorie come quella che il 2 agosto a Napoli ha portato al ferimento di Cissé Elhadji Diebel, un ragazzo senegalese di 22 anni. In seguito a questa aggressione, la comunità senegalese di Napoli e la Rete Antirazzista hanno organizzato una manifestazione di protesta sottolineando che non si tratta di fatti isolati, ma di attacchi che si susseguono con sempre maggiore frequenza.

Da dove nasce la violenza?

Alla luce di questi drammatici eventi, sono in molti a domandarsi in quali contesti si origini la furia xenofoba che sta investendo il Belpaese. Una prima risposta si può trovare in un recente articolo di Roberto Castaldi, docente di filosofia politica presso l’università Ecampus. Nella sua riflessione sottolinea come la discriminazione e l’odio verso il diverso siano “fenomeni ricorrenti nella storia delle società umane, inclusa la nostra”.

In situazioni di relativa sicurezza e stabilità queste pulsioni negative vengono relegate in un angolo e sono oggetto di rifiuto da parte della stragrande maggioranza delle persone. Nei momenti di grave crisi economica e sociale, però, l’intolleranza e il disprezzo verso determinate fasce della popolazione si fanno più acuti fino a diventare parte integrante del pensiero comune. In poche parole, quando le cose vanno male si cerca un capro espiatorio su cui scaricare colpe e frustrazioni.

Del resto, ci fa notare il professor Castaldi, “l’individuazione di un colpevole della situazione permette di andare avanti come si è sempre fatto, senza fare la fatica di capire davvero com’è cambiato e come sta cambiando il mondo, e soprattutto senza dover modificare le nostre abitudini psicologiche, cognitive e comportamentali”.

In un sistema socio-economico indebolito, la presenza di un nemico comune rafforza l’identità di gruppo e cementa i legami tra coloro che si sentono minacciati dalla presenza dell’altro, del “diverso”. In questi casi è poi molto probabile che i cittadini decidano di riporre la loro fiducia in una forza politica che prometta di difendere loro e i loro interessi, che abbia nel suo programma parole come “prima gli italiani”, “pulizia nelle strade” e “stop invasione”.

Se poi il partito in questione è guidato da un leader muscolare e carismatico, capace di sfruttare media e social network per veicolare i suoi messaggi apertamente xenofobi e razzisti, la situazione si farà ben presto incandescente.

Sulle unghie di Josepha

Fino a qualche anno fa, la stragrande maggioranza delle persone si affidava alla carta stampata e alla televisione per conoscere le principali notizie dall’Italia e dal mondo. Giornali, TG e talk show erano i principali mezzi di informazione e, molto spesso, di disinformazione. Come non ricordare le prime pagine allarmistiche e apertamente xenofobe di quotidiani come Libero e Il Giornale?

Luigi Manconi, docente di sociologia dei fenomeni politici presso la IULM di Milano e presidente dell’associazione A buon diritto, nel libro che ha recentemente scritto con Federica Resta (“Non sono razzista, ma”; Feltrinelli 2017, 150 pp., 15€) ha stilato un puntualissimo elenco di quei titoloni a caratteri cubitali che spaziano dal “Ci invadono!” al “Ma quanto ci costano?!. Da notare che le 36 pagine di cui si dà conto sono state raccolte nell’arco di appena 5 mesi.

Se molti quotidiani viaggiavano, e viaggiano tutt’ora, su questo binario, non si può certo dire che la televisione sia rimasta a guardare. Con il preciso intento di dare voce a chi altrimenti non riuscirebbe a esprimersi (!), alcune trasmissioni televisive si sono trasformate nelle casse di risonanza del malcontento popolare. Programmi come “Quinta colonna” e “Dalla vostra parte”, solo per citare i più noti, promettono sostanzialmente di farsi portavoce dei problemi della collettività, dando ai cittadini la libertà di manifestare tutta la loro rabbia. La stessa che ormai imperversa liberamente nel gigantesco calderone di Internet.

Fake news, post che inneggiano alla violenza, teorie del complotto, ipotesi campate per aria ma spacciate per verità assolute e altre enormità simili stanno trasformando il web in una galleria degli orrori. Uno dei più noti raccapriccianti episodi riguarda Josepha, la donna di origini camerunesi salvata dalla nave Open Arms il 17 luglio scorso. Le sue unghie laccate di rosso, “un segno di rinascita e ritrovata femminilità dopo aver rischiato la vita in mezzo al mare”, sono diventate di colpo l’epicentro di una vergognosa teoria complottista.

Secondo alcuni utenti, Josefa sarebbe fuggita dalla guerra con lo smalto già steso – come a dire: se ti senti davvero così in pericolo non pensi certo a farti bella. La notizia è rimbalzata un po’ ovunque ed è stata puntualmente smentita dalla giornalista di Internazionale Annalisa Camilli, che in un tweet ha spiegato come siano state le volontarie della Open Arms a prendersi cura delle mani di Josefa per farla sentire meglio e farla parlare. La giornalista ha successivamente diffuso anche una fotografia che ritrae Josefa subito dopo il salvataggio: sulle sue dita non c’è alcuna traccia di smalto.

Non è vero ma ci credo

Secondo il Rapporto Infosfera, l’82% degli italiani non sa riconoscere una notizia falsa quando naviga in rete. La ricerca è stata realizzata dal gruppo di ricerca sui mezzi di comunicazione di massa dell’università Suor Orsola Benincasa di Napoli e ha coinvolto più di 1500 cittadini italiani.

Dai dati raccolti emerge che il 95% degli intervistati usa quotidianamente Internet, soprattutto i social network. E qui le cose si fanno davvero strane: da un lato infatti l’87,24% del campione in esame dichiara che “Facebook e compagni non offrono più opportunità di apprendere notizie credibili”, ma dall’altro il 77,3% ritiene che le fake news non siano un ostacolo alla democrazia.

Eugenio Iorio, docente di social media marketing all’Università Suor Orsola Benincasa e coordinatore scientifico della ricerca, ha definito inquietanti i dati raccolti e ha aggiunto che la ricerca dimostra come i cittadini/utenti siano “sprovvisti dei più elementari strumenti di analisi e di critica della realtà e privi di qualsiasi strumento di difesa”, e che la loro visione della realtà sia distorta e “sempre più prossima a quella desiderata dai manipolatori delle loro capacità cognitive”.

Di certo ora si capisce perché moltissime persone abbiano condiviso indignate le foto delle unghie rosse di Josefa o quelle dei bimbi annegati nel Mediterraneo, che a detta di qualche cialtrone del web erano soltanto dei bambolotti.

Rispondere all’odio

Forse non potremo vincere l’odio, non subito quantomeno, ma di certo possiamo cercare di arginarlo. Come? Informandoci e informando, investendo tempo e fatica nella ricerca di verità che in molti, moltissimi non vorrebbero vedere e coinvolgendo in questo percorso anche chi all’apparenza la pensa diversamente da noi. Forse incontreremo più difficoltà che soddisfazioni, ma almeno avremo fatto la nostra parte per rendere un po’ meno terribile il tempo che stiamo vivendo.

Nicole Zaramella

©2018 Il Grande Colibrì
foto: Raw Pixel (Pexels License)

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