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Il sultano del Brunei è sul trono da 52 anni: dopo la regina Elisabetta II, è il secondo monarca al mondo che regna da più tempo. Fino a poco tempo fa il sultano sembrava interessato a vivere una vita decadente più che pia. Nel 2011 Vanity Fair ha soprannominato il sultano Hassanal Bolkiah e suo fratello, il principe Jefri Bolkiah, “compagni costanti nell’edonismo“. Hanno speso una fortuna in auto di lusso, yacht e immobili, e, secondo la rivista, “avrebbero mandato propri emissari a setacciare il globo in cerca delle donne più sexy che riuscissero a trovare per creare un harem come il mondo non aveva mai conosciuto”.

Ora il sultano ha introdotto la legge della sharia nel suo paese e ha preso di mira le persone LGBT (lesbiche, gay, bisessuali e trans), le donne e persino i bambini, introducendo le pene più severe al mondo per il sesso omosessuale e per l’adulterio (morte per lapidazione) e per l’aborto (fustigazione pubblica). In uno sforzo apparente per cancellare l’identità transgender, chi si veste con un abbigliamento culturalmente associato a un altro sesso biologico è punibile con una multa e con la reclusione fino a 3 mesi.

Un adolescente che ha raggiunto la pubertà può essere punito come un adulto per questi reati, mentre i bambini più piccoli possono essere frustati.

Non c’è neppure bisogno di dirlo: queste leggi equivalgono a gravi violazioni delle leggi internazionali relative ai diritti umani, ai diritti delle donne e ai diritti dei bambini.

Distrarre dai problemi economici

La grande domanda è: quali sono le motivazioni del sultano? Uno studioso religioso ha osservato: “Ovviamente non è il frutto di devozione religiosa, dal momento che lo stesso sultano viola qualsiasi singola regola immaginabile della legge della sharia”.

Una delle motivazioni principali potrebbe essere che, con il crollo dei prezzi del petrolio, per la prima volta il Brunei, nazione piccola (430mila abitanti) ma ricca di oro nero, è alle prese con una crisi economica. Altri leader, di fronte a crisi simili o ad accuse di corruzione, hanno scatenato più o meno allo stesso modo l’odio contro le persone LGBT per distrarre l’attenzione del pubblico. Questa tattica è stata utilizzata dal presidente del Gambia Yahya Jammeh nel 2014, quando ha promulgato una legge che ha creato un nuovo reato di “omosessualità aggravata condannato con l’ergastolo.

Il sultano forse sta anche cercando di riabilitare la propria reputazione di “festaiolo”: forse crede che l’introduzione della legge della sharia possa consentirgli di lasciare un’eredità religiosa che faccia dimenticare i decenni in cui lui e la sua famiglia hanno indugiato negli eccessi.

donne yacht auto

Perché i boicottaggi non funzionano

La comunità internazionale è stata veloce nella sua condanna delle nuove leggi del Brunei. Molte celebrità indignate e attivisti per i diritti degli omosessuali hanno organizzato boicottaggi e proteste al di fuori degli hotel di proprietà del sultano (compreso il Royal on the Park di Brisbane) e della Royal Brunei Airlines. Ma tali boicottaggi sono efficaci? La risposta breve è no. Dovremmo diffidare dei boicottaggi per diverse ragioni, tra cui:

  1. possono indurre il governo a indurire la propria posizione per dimostrare che non cederà alle pressioni esterne, rendendo ancora più difficile l’abrogazione di tali leggi;
  2. la comunità LGBT può essere sottoposta a una violenta reazione, con l’accusa di portare pressione economica e vergogna sul paese;
  3. possono essere considerati ipocriti in quanto ci sono altri paesi che impongono la pena di morte per i rapporti omosessuali (Afghanistan, Iran, Mauritania, Pakistan, Qatar, Arabia Saudita, Sudan, Emirati Arabi Uniti, Yemen e parti della Nigeria e della Somalia) senza essere sottoposti a una simile condanna internazionale.

Cosa possono fare i cittadini nel mondo?

In Australia, per esempio, le persone possono fare pressioni sul governo per rispondere con forza al Brunei, un importante partner regionale per la difesa e la sicurezza. Come ho notato nel 2013, quando queste leggi erano state approvate ma non ancora implementate, l’Australia ha una forte relazione commerciale con il Brunei, che potrebbe dargli la possibilità di avere qualche influenza.

Finora, tuttavia, la risposta dall’Australia è stata debole. La ministra degli affari esteri Marise Payne ha dichiarato in un tweet che l’Australia ha sollevato le proprie “preoccupazioni” con il Brunei riguardo alle nuove leggi, ma ha comunque taciuto sulla questione. Il primo ministro Scott Morrison non ha parlato delle nuove leggi.

Anche le organizzazioni internazionali possono fare pressioni sul Brunei. Ad esempio, il Brunei è membro del Commonwealth delle Nazioni e questa organizzazione potrebbe essere in grado di impegnarsi in un dialogo costruttivo con il sultano. Il Commonwealth Heads of Government Meeting (Riunione dei capi di governo del Commonwealth; CHOGM), che si svolgerà in Ruanda l’anno prossimo, potrebbe ospitare questo dialogo non solo con il Brunei, ma anche con gli altri 35 paesi del Commonwealth che ancora criminalizzano i rapporti sessuali omosessuali consenzienti.

Se i negoziati con il Brunei non avessero successo, il Commonwealth può anche sospendere l’adesione di un paese, un passo che ha precedentemente preso in risposta a gravi violazioni dei diritti umani nelle Figi, in Nigeria, in Pakistan e in Zimbabwe.

commonwealth

Sarebbe particolarmente utile se l’Associazione delle Nazioni del Sud-est Asiatico (ASEAN) adottasse una linea dura contro il Brunei (che ne è membro), ma questo è improbabile. Sebbene l’ASEAN abbia adottato una Dichiarazione sui diritti umani nel 2012, questa non vieta la discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere e contiene numerose clausole derogatorie che ne riducono significativamente l’impatto.

Le ASEAN Civil Society Organisations (Organizzazioni della società civile dell’ASEAN) hanno invitato gli stati membri dell’organizzazione a chiedere al Brunei di fermare immediatamente l’attuazione della sharia con queste parole: “Adottando opinioni conservatrici sulla moralità e punizioni eccessive, il Brunei essenzialmente legittima la violenza”. Ma è un appello che probabilmente cadrà nel vuoto.

Anche le Nazioni Unite hanno un ruolo da svolgere. Il mese prossimo i diritti umani del Brunei saranno esaminati dal Consiglio per i diritti umani dell’ONU (UNHRC): è un’altra opportunità per un dialogo costruttivo. Sebbene l’UNHRC sia spesso percepito come un’organizzazione impotente, la ricerca ha dimostrato che è più probabile che uno stato accetti la critica proveniente da un partner strategico che quella proveniente da uno stato con cui ha meno legami.

Altri paesi potrebbero seguire l’esempio?

Ci si preoccupa che le azioni del Brunei possano incoraggiare i suoi vicini a maggioranza musulmana, cioè la Malesia e l’Indonesia, a seguirne l’esempio.

Il sesso omosessuale non è contro la legge in Indonesia, ad eccezione della provincia di Aceh, che ha istituito la legge della sharia. Anche se l’omofobia e la transfobia sono aumentate e prima delle elezioni di questo mese si è parlato di criminalizzare i rapporti omosessuali, sembra ancora improbabile che la sharia venga adottata in tutto il paese. La stragrande maggioranza degli indonesiani (l’88% della popolazione) continua a considerarsi musulmana moderata.

Allo stesso modo, in Malesia alcuni stati applicano la legge della sharia. Lo scorso settembre due donne sono state dichiarate colpevoli di aver tentato di fare sesso nello stato nord-orientale conservatore di Terengganu e sono state condannate a sei fustigazioni ciascuna. Sebbene la legge della sharia possa potenzialmente diffondersi in tutto il paese, la Malesia è uno dei pochi paesi della regione in cui la democrazia non sta peggiorando, e anzi sta migliorando.

Vale la pena osservare che il Brunei dal 1957 non applica la pena di morte. Una persona ottimista potrebbe concludere che l’introduzione di queste nuove leggi è principalmente simbolica e progettata per rafforzare le credenziali islamiche del sultano e raccogliere il favore di altri paesi islamici per incrementare il commercio e il turismo. Ma ciò non diminuisce la preoccupazione legittima che il mondo sta esprimendo per le minoranze vulnerabili diventate il bersaglio di queste leggi.

Paula Gerber per The Conversation
professoressa di diritti umani dalla Monash University
traduzione di Pier Cesare Notaro
©2019 The Conversation – Il Grande Colibrì
foto: elaborazione da pxhere (CC0) / Il Grande Colibrì / Il Grande Colibrì

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