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Una “eccezione” in Medio Oriente: è così che il New York Times e altri media hanno continuamente etichettato il Libano, sottolineando la sua speciale relazione con il resto della comunità LGBTQIA (lesbiche, gay, bisessuali, trans, queer, intersex e asessuali) nel mondo arabo. Infatti, articoli come “Beirut e il Libano: il paradiso gay del mondo arabo” (Gay Star News) dedicato al primo club gay della regione, “Tutti sono benvenuti: l’unico ritrovo gay nel mondo arabo” (The Guardian) sulla sua prima organizzazione gay, o “Il Libano lancia la prima settimana dell’orgoglio gay nel mondo arabo” (Reuters) sulla sua prima parata del Pride, rivelano tutti il fascino del Libano come una nuova oasi sessuale per gli arabi.

Oasi nel deserto?

Il modo in cui i media occidentali hanno coperto la tolleranza gay libanese merita tuttavia un’attenta analisi. Senza dubbio il caso del Libano attrae i media, che possono presentare il quadro orientalista dell’oasi calma e paradisiaca, con i suoi laghi e le sue palme, nel bel mezzo del deserto e della guerra tribale. Questa fantasticheria è stata prontamente fatta propria dal New York Times, da France 24, dalla BBC e da altri, che hanno tratto profitto contemporaneamente dalla sua contro-narrativa, in particolare quando la seconda edizione del Beirut Pride è stata chiusa con la forza nel 2018.

Articoli come “La reputazione gay-friendly del Libano sfidata dagli abusi” (BBC), così come “Il Libano è conosciuto come gay-friendly, ma la settimana del Pride è stata chiusa” (The New York Times) e “Non è uno shock: annullato l’unico Gay Pride del Medio Oriente arabo” (Daily Wire), rivelano quanto facilmente l’Occidente possa ritrattare il proprio fascino per il Libano, rendendo la propria precedente copertura favorevole solo una scintilla temporanea di speranza in una regione condannata. Il Libano, per l’Occidente, diventa questa piccola oasi in un deserto arabo dove l’omosessualità è la cosa al tempo stesso più possibile e meno desiderabile, come se il Libano fosse davvero una terra di nessuno tra Oriente e Occidente, una valle vuota risparmiata dall’inferno orientale, ma che non raggiunge il paradiso occidentale.

Anche i media locali libanesi hanno rivelato questa tensione tra i due mondi, che si è manifestata in particolari eventi mediatici: un cantante libanese che ha annunciato il matrimonio con il suo fidanzato spagnolo in Spagna, la figlia di un politico libanese che ha postato su Instagram un’immagine in cui parlava di un’altra donna come della sua “mogliettina” e la cantante libanese Nancy Ajram che ha vietato di esporre bandiere arcobaleno durante un suo concerto in Svezia. Questi eventi mediatici libanesi hanno in comune questo ponte tra Beirut e città straniere, tra la città cosmopolita e la sua diaspora che sembra essersi allontanata troppo.

Il matrimonio di Chalhoub

La viralità dell’annuncio del matrimonio di Nicolas Chalhoub con un altro uomo in Spagna, un fenomeno dei social media che lo ha portato alla televisione nazionale, può essere spiegata attraverso l’antico ritornello di ammonimento sulla diaspora libanese: “Non dovresti mandare i tuoi figli all’estero: l’Occidente li corromperà“. Inizieranno a drogarsi. Saranno così svergognati da portare una ragazza straniera a casa della nonna. E poi la catastrofe: torneranno con un orecchino, magari – Dio non voglia! – sull’orecchio destro.

Questo refrain è stato brevemente esplorato da Tarek El-Ariss in un capitolo di “Trials of Arab Modernity”, che inizia con la seguente epigrafe: “Temo, figlio mio, che l’Occidente possa portarti via da noi. Quello che temo di più è che una donna europea possa sedurti e attirarti nella sua rete, spezzando il cuore della tua povera madre. Nahida è in attesa del tuo ritorno, figlio mio. E anche se non vuoi Nahida, ci sono sempre Ni’mat, Thurayya e tua cugina Hadba. Ci sono un sacco di ragazze qui. Ritorna, figlio mio, e ti farò sposare con la ragazza più bella, pura e casta” – Suhayl Idris, “Al-Hayy al-Latini” (1953)

Questa epigrafe la dice lunga sullo scandalo mediatico suscitato dal matrimonio di Nicolas Chalhoub con un uomo spagnolo, e tuttavia risale al 1953. “Temo, figlio mio, che l’Occidente possa portarti via da noi“: è proprio questa l’antica, struggente paura dei genitori libanesi, che hanno un problema non con l’orientamento sessuale dei loro figli, ma con il loro orientamento geografico. La paura del padre per la mancanza di castità e purezza delle donne occidentali è parallela allo scandalo su Chalhoub, che, nell’immaginario sulla diaspora libanese, è stato, per usare le parole del padre, portato via dall’Occidente. Nel caso di questo cantante, la dannazione deriva dall’essere stato attirato non solo dal genere del ragazzo spagnolo che ha sposato, ma forse anche dalla sua ispanità allettante e tabù.

cappello spagnolo fez tarbush

La “wifey” su Instagram

Lo stesso vale per lo scandalo sulla figlia di Walid Joumblat, che ha pubblicato su Instagram una foto con una ragazza con la didascalia “wifey” (mogliettina, in inglese). Quasi immediatamente, le principali agenzie di stampa hanno riferito che la figlia del famoso politico libanese era omosessuale e che si era sposata con una donna. Questa reazione smisurata può essere spiegata, oltre che da motivazioni politiche, anche attraverso la stessa lente con cui i libanesi hanno visto il matrimonio di Nicolas Chalhoub con un uomo spagnolo. La figlia di Joumblat diventa il suo equivalente femminile, la figlia selvaggia di un uomo politico libanese stimato e vecchio stile che sembra aver tradito tutti i valori della sua famiglia e che è scappata in Occidente con la sua mogliettina.

Un’attenzione particolare dovrebbe essere posta sul mezzo che ha usato (Instagram) e sul termine che ha usato (wifey), entrambi presi a prestito dall’Occidente. La ragione per cui gli organi di stampa si sono lanciati a coprire questa storia falsa (la figlia di Joumblat aveva usato il termine in modo amichevole, come fa la maggior parte delle adolescenti) è il risultato tanto di un fallimento di comunicazione tra generazioni quanto di un equivoco geografico, con il fraintendimento totale di parole occidentali e conoscenze adolescenziali.

Una falsa narrazione

Anche la passione scatenata dalla messa al bando della bandiera arcobaleno al concerto di Nancy Ajram segue lo stesso schema del matrimonio di Nicolas Chalhoub e della didascalia su Instagram della figlia di Joumblat: tutti e tre gli episodi entrano a far parte di questa trattativa tra est e ovest, tra vecchio e nuovo, con al tempo stesso elogi per aver abbracciato la modernità occidentale e condanne per aver rinunciato la tradizione orientale.

E invece bisogna sottolineare quanto questi binarismi siano falsi: i giovani libanesi sono spesso sorpresi di scoprire in vecchie foto la loro nonna in minigonna, quando ancora il conservatorismo non era spuntato nella storia del paese. Includere i diritti degli omosessuali all’interno di una “narrazione del progresso” falsa e piuttosto ciclica significa anche soffrire di amnesia, dal momento che bisogna ricordare come sono stati i francesi a introdurre per la prima volta l’articolo 534 del codice penale per criminalizzare ciò che le moderne potenze coloniali occidentali pensavano che fosse una pratica rozza, arcaica, barbarica e tipicamente orientale: il sesso anale.

La chiusura del Beirut Pride

Questa inversione traspone la lotta per i valori progressisti in Libano su un campo di battaglia geografico tra Oriente e Occidente, il cui culmine è rappresentato al meglio dalla chiusura dell’edizione 2018 del Beirut Pride, una misura drastica del ministero degli interni che fino a quel momento aveva spesso chiuso un occhio sugli sforzi di emancipazione degli omosessuali nel paese. Cosa lo ha spinto ad agire in questa occasione?

La loro negoziazione tra accettabilità e repressione, secondo me, è radicata in uno scontro tra Oriente e Occidente. Mettiamo a confronto il Beirut Pride con la prima organizzazione non governativa (ONG) omosessuale del Libano, Helem (Sogno). Il modo di comunicare di quest’ultima, che sottolinea l’ispirazione araba nei suoi post ed evita a volte immagini di tipo occidentale, le garantiscono di lavorare senza farsi notare dal radar del ministero. Al contrario, i social media del Beirut Pride sono pieni di immagini che evocano l’Occidente: riferimenti cinematografici hollywoodiani, bandiere arcobaleno e scambi di battute su Grindr. La chiusura del Pride sembra dovuta più al suo aspetto occidentalizzato che al suo contenuto queer e la sua cancellazione del 2018 si trasforma in una vecchia ferita appena riaperta: lo stato, questo mostro dormiente, pare essersi risvegliato più per Ru Paul che per i suoi equivalenti orientali.

Contraddizioni

Ma questo standard non vale tutto il tempo. In una conferenza stampa del 2012, l’avvocato Nizar Saghieh ha puntato il dito sul classismo con cui lo stato libanese criminalizza l’omosessualità.

Nonostante la frequenza con cui gli utenti “provocatori” dei social network finiscono davanti al giudice, il post su Instagram della figlia di Walid Joumblat, per esempio, non la mette sotto il radar del ministero degli interni, che, secondo Saghieh, bullizza i gruppi più vulnerabili. Una piccola nota a piè di pagina dovrebbe essere aggiunta al binarismo Oriente-Occidente: insieme all’antagonismo orizzontale, ci sono variabili verticali (cioè classe sociale e potere) che riducono o aumentano lo scontro. È così qualcuno viene punito, mentre altri sono discolpati.

A livello di governo, sul tema dell’accettabilità si manifesta un’altra contraddizione nel punto di vista settario con cui si sta sviluppando l’agenda progressista. Un primo esempio è il campo di battaglia per i diritti delle donne: i discorsi secondo cui i partiti musulmani, e non quelli cristiani, sarebbero responsabili dello stallo della mozione per porre fine al matrimonio infantile, si sono radicati nella società libanese, mettendo di nuovo musulmani contro cristiani, questa volta non per i palestinesi ma per le donne, e presto per gli omosessuali. Fare un parallelo con la guerra civile libanese durata 15 anni può sembrare eccessivo, ma entrambi gli scontri hanno in comune il binarismo Oriente-Occidente: nella guerra tra milizie del passato la scelta era tra un Oriente solidale con palestinesi e un’Occidente a loro ostile, mentre nella guerra sociale di oggi la scelta è tra un Oriente misogino e omofobo e un’Occidente liberale e aperto.

Un punto di vista settario

Questa nuova battaglia settaria può essere discussa su più fronti: il partito a guida cristiana Kataeb (Falangi libanesi) nel 2018 ha incluso per la prima volta i diritti degli omosessuali nel proprio programma elettorale, il canale TV cristiano LBCI offre la massima copertura alle notizie LGBTQIA, mentre i cristiani della cerchia di Michel Aoun, attuale presidente della repubblica, detengono il monopolio del ministero degli esteri, unico ponte istituzionale tra Oriente e Occidente, e chiedono riforme sociali in nome della “integrazione globale.

Ma non bisogna farsi ingannare dal punto di vista settario con cui il progresso sociale si sta sviluppando in Libano: anche se considerare il Libano come un luogo in cui i cristiani raffinati chiedono il cambiamento e i musulmani barbarici lo rifiutano è un racconto amato dai media e facile da capire, la realtà sul terreno è diversa. Oltre all’attiva omofobia della Chiesa maronita in Libano, come testimonia un suo membro in un documentario della BBC, e all’esplosione di citazioni bibliche tra gli utenti libanesi di Facebook quando vengono invocati i diritti degli omosessuali, un’ulteriore dimostrazione di questa falsa narrazione settaria è il gruppo della società civile Kollouna Watani (Noi tutti siamo la mia nazione) che ha partecipato alle ultime elezioni unendo partiti con storie molto diverse e di ogni confessione e che nel 2018, senza grandi dibattiti, ha espresso il proprio sostegno a una serie di riforme sociali, tra cui i diritti degli omosessuali.

Un falso scontro di civiltà

Il binarismo Oriente-Occidente a livello politico è insomma il più ingannevole e il più pericoloso: anche se non riflette la pluralità, la tolleranza e l’apertura della società libanese su questioni sociali apparentemente discutibili, la narrazione che viene costruita è una contrapposizione tra cristiani occidentali e musulmani orientali, una nuova era di crociate che vede ancora una volta i cristiani abbandonati in Oriente implorare le potenze occidentali di venire in loro soccorso con un branco di diplomatici dell’ONU e di ministri degli esteri statunitensi. Così i diritti umani violati diventano la nuova arma di distruzione di massa da scoprire.

Di fronte a questo scontro tra Oriente e Occidente, i libanesi, sia online che offline, stanno avanzando molto nello scontro di civiltà in atto, eppure sono poco consapevoli delle sue implicazioni: il loro sdegno, da entrambi i lati del dibattito, oscilla tra Oriente e Occidente senza alcun pensiero critico. E si finisce in un falso scontro di civiltà, in una battaglia ideologica appassionata per entrambi i campi, che insistono nel confondere l’oggetto del dibattito (per esempio, i diritti degli omosessuali) con la posizione del Libano tra Oriente e Occidente. E la valle che si trova nel mezzo, sebbene abitabile, diventa per entrambi una terra di nessuno, il pericoloso stadio degli ignavi di Dante, un ago che ti rimanda in entrambi i campi, l’Occidente civilizzato e l’Oriente classico.

L’uscita da questo limbo è in effetti la principale sfida per i diritti degli omosessuali in Libano e il primo passo è far emergere l’elefante nella stanza e chiamare il vero problema con il suo nome: occidentofobia.

Rayyan Dabbous per openDemocracy
scrittore e drammaturgo libanese
traduzione di Pier Cesare Notaro
©2019 Il Grande Colibrì
foto: elaborazione da Hussein Al-Ajamii (CC BY-SA 4.0) / Il Grande Colibrì

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