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Riciclare gli incipit degli articoli forse non è molto elegante, ma la frase “Le elezioni a volte servono a scegliere chi governerà un paese e a volte servono solo a incoronare chi lo governa già“, con cui introducevamo il voto in Russia una settimana fa, suona perfetta anche per l’Egitto, che, tra ieri, oggi e domani, è chiamato alle urne per (ri)eleggere il suo presidente.

Un voto di paura e rassegnazione

Questo non significa che non ci siano differenze tra la messinscena di Vladimir Putin e la messinscena di Abd Al-Fattah Al-Sisi: se il primo aveva sette avversari fantoccio, il militare egiziano ne avrà solo uno, l’architetto Moussa Mostafa Moussa – che, a voler fargli proprio le pulci, neppure si può definire un avversario, visto che è un appassionato sostenitore di Al-Sisi. I veri oppositori hanno dovuto rinunciare alla corsa presidenziale, con le buone o – più spesso – con le cattive.

Ma la differenza più grande, che spiega in larga parte anche la prima, è che moltissimi russi sono comunque accorsi alle urne con il cuore colmo di amore e gratitudine per Putin, mentre ciò che sta muovendo gli elettori egiziani sono soprattutto la paura e la rassegnazione: il governo di Al-Sisi ha raccolto solo fallimenti in tutti i campi possibili e immaginabili, dalla lotta al terrorismo all’economia, fino alla politica estera.

Gli egiziani stanchi della politica

E così, nonostante la grancassa assordante della propaganda, gran parte della popolazione è delusa dalla politica, o apatica, come hanno raccontato, per esempio, Ola Noureldin o Yasmine El Rashidi. Nessun entusiasmo, nessuna speranza, nonostante gli appelli sempre più spudorati delle star televisive, dei leader religiosi musulmani e cristiani, persino di Ahmed Okasha, ex presidente dell’Associazione Mondiale di Psichiatria, che in un’intervista imbarazzante ha dipinto Al-Sisi come il grande guaritore del paese dal disordine morale e psicologico che sarebbe stato scatenato dalla rivoluzione del 2011, per poi accusare gli eventuali astenuti di tradimento della nazione e di vicinanza al terrorismo.

Le elezioni sono “una farsa pura e semplice, benedetta dall’establishment militare che sta soffocando la politica egiziana da oltre 60 anni“, scrive Mona Eltahawy, mentre Ezzedine Choukri Fishere sceglie il sarcasmo per puntare il dito contro l’apparato della (presunta) sicurezza: secondo lui “le elezioni pluralistiche non si addicono all’Egitto: c’è addirittura chi se ne approfitta per candidarsi senza che nessuno gli abbia chiesto niente!“.

Al-Sisi, campione nella repressione

In un solo campo il regime ha avuto un clamoroso successo: la repressione, compiuta anche con armi vendute dall’Italia. La tragica fine di Giulio Regeni è solo la punta di un iceberg fatto di migliaia e migliaia di persone uccise, torturate, violentate e ferite. L’Egitto ha visto il lavoro incessante dei tribunali militari, che hanno emesso una valanga di condanne a morte e di sentenze contro circa 60mila prigionieri politici, tanto da richiedere la costruzione di una ventina di nuove carceri. E poi c’è la restrizione delle libertà di espressione, associazione, riunione e stampa: decine di giornalisti in galera, centinaia di siti web chiusi.

La censura è diventata così forte che gli editori egiziani hanno dovuto rifiutarsi di pubblicare persino i libri del mondialmente noto ‘Ala Al-Aswani, uno dei più importanti scrittori del paese, autore tra l’altro di “Palazzo Yacoubian” e “La rivoluzione egiziana”, costretto ora a rivolgersi a case editrici in Libano. Intanto un altro scrittore famoso, Ahmed Nàgi, nel febbraio del 2016 veniva condannato a due anni di carcere per oltraggio al pudore per il libro “Vita: istruzioni per l’uso” in cui parla di sesso e di droghe.

La condanna di Nàgi, come quella di Shyma, cantante accusata di aver girato un videoclip troppo sexy, dimostra anche il profondo moralismo del regime. D’altra parte Al-Sisi si era fatto conoscere nel 2011 quando aveva difeso i “test di verginità” a cui venivano sottoposte le manifestanti di piazza Tahrir, dicendo che proteggevano i soldati e i funzionari dalle accuse di stupro. E ovviamente una politica bacchettona non può fare a meno di scagliarsi contro le minoranze sessuali: esiste per caso un capro espiatorio migliore per un governo che cerca di nascondere i propri fallimenti?

L’omofobia per distrarre le masse

In fin dei conti, il giro di vite contro la comunità queer è una distrazione – spiega l’attore Omar Sharif Jr., che ha fatto coming out nel 2011 – Quando i problemi sono troppo difficili da risolvere, a volte la soluzione migliore è cercare di distrarre. Succede in tutto il mondo. Alcune società si basano su una costituzione che garantisce un quadro legale di uguaglianza, altre società si affidano più sulla morale tradizionale che sulla legalità, e in quest’ultimo caso è molto più difficile che si sviluppino uguaglianza e accettazione. L’Egitto si basa più sulla morale“.

Sviare l’opinione pubblica dai propri fallimenti significa per esempio proporre una riforma che criminalizzi ufficialmente l’omosessualità. Significa monitorare costantemente le app per appuntamenti per soli uomini per preparare imboscate contro gay e bisessuali. E significa soprattutto organizzare grandi arresti di massa di presunti omosessuali e transgender (l’ultimo risale a gennaio), intorno a cui costruire immensi scandali mediatici. Intanto la comunità LGBTQIA (lesbiche, gay, bisessuali, trans, queer, intersex e asessuali) egiziana è costretta al silenzio e all’invisibilità, mentre l’opinione pubblica internazionale, indifferente, preferisce non farsi sentire e non farsi vedere.

Pier Cesare Notaro
©2018 Il Grande Colibrì

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