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L’amore e la sessualità fra persone dello stesso sesso sono considerati spesso, anche per motivi religiosi, una devianza, un comportamento contro natura. Ebrei, cristiani e musulmani si trovano spesso ad affrontare difficili questioni come “E se mio figlio fosse gay?”, “E se mia figlia amasse una ragazza?” oppure “Come conciliare il mio orientamento sessuale, esplicitamente vietato dalla mia religione, con la mia fede?”. Di seguito abbiamo chiesto alla professoressa Serena Tolino, docente di Studi Islamici presso l’Università di Amburgo, di illustrarci il modo in cui l’omosessualità è affrontata nelle fonti di diritto islamico. Con un po’ di pazienza ed un’attenta lettura scopriremo che la questione è molto più complessa di quello che ci si potrebbe aspettare.

In realtà le fonti del diritto islamico non condannano l’omosessualità per un motivo assai semplice: si tratta di un concetto moderno, utilizzato soltanto a partire dal XIX secolo. Se certamente esistevano persone che avevano rapporti omoerotici anche prima, è soltanto nel 1869 che per la prima volta lo studioso ungherese Karl-Maria Kertbeny parla esplicitamente di “homosexualität”.

Le fonti del diritto islamico, e in particolare il Corano e la Sunna (1) (le tradizioni profetiche), sono passate attraverso un processo di canonizzazione che si è concluso intorno al IX secolo – ben prima, quindi, che la nozione di omosessualità come identità sessuale venisse concettualizzata. Altra cosa sono invece i rapporti omoerotici, di cui si può certamente parlare ben prima del XIX secolo. Ma l’omosessualità, per come viene definita oggi, non comprende soltanto il mero atto sessuale, ma anche l’attrazione più o meno esclusiva per membri dello stesso sesso, i sentimenti, le emozioni e un senso di identità basato su tale attrazione. L’omosessualità come identità sessuale non è discussa né tantomeno condannata nel Corano o nella Sunna.

Se ci limitiamo soltanto ai rapporti sessuali, nel Corano i rapporti omoerotici non vengono menzionati neanche una volta.

L’unico riferimento ai rapporti omoerotici, e soltanto tra uomini, è la storia del Profeta Lot. Secondo la narrazione coranica, che è molto simile a quella biblica, Dio avrebbe inviato il Profeta Lot per mettere in guardia il suo popolo, che si dedicava a una serie di atti illeciti, tra cui il brigantaggio, l’aggressione ai viaggiatori e la sodomia, che non viene menzionata esplicitamente, anche se il Corano dice in un passo: “E Lot, quando disse al suo popolo: ‘Compirete forse voi questa turpitudine, tale che mai nessuno la commise prima di voi al mondo? Poiché voi vi avvicinate per libidine agli uomini anziché alle donne, anzi voi siete un popolo senza freno alcuno’. Ma la risposta del suo popolo non fu che questa: ‘Cacciateli fuori della vostra città! Sono uomini che voglion farsi passare per puri!’” (Sura 7, Al-A’raf, 80-84; traduzione di Alessandro Bausani).

È interessante notare, come faceva Arno Schmitt già nel 2001 in “Liwāṭ im fiqh” (2), che in realtà in questa storia si ritrova soprattutto il topos del popolo che non ascolta il suo Profeta e per questo viene distrutto da Dio, ed è da considerarsi semmai un monito agli arabi affinché ascoltino e seguano Muhammad (Maometto), piuttosto che una condanna dei rapporti omoerotici. Va anche detto che un’analisi diacronica dei vari commentari coranici dimostra come nei commentari più antichi venissero menzionati una serie di peccati commessi dal popolo di Lot, mentre in quelli più recenti si menziona quasi esclusivamente la sodomia.

Pochi esegeti hanno voluto vedere un riferimento ai rapporti omoerotici anche nei versetti 15-16 della Sura 4 (Le donne). Qui si menzionano “le donne che compiono atti indecenti” e gli uomini “che commettono atti indecenti”, usando nel primo caso un pronome plurale femminile e nel secondo un duale maschile. Il riferimento sarebbe quindi rispettivamente alle donne e agli uomini che hanno rapporti omoerotici (3). Si tratta in ogni caso di un’interpretazione minoritaria, che oltretutto è stata per lo più ignorata dai giuristi, che ritengono invece che tali versetti si riferiscano al crimine di زناء (zina; adulterio o fornicazione).

Per quanto riguarda la Sunna, invece, esistono una serie di ahadith (detti profetici) dedicati sia ai rapporti omoerotici tra donne (سحق; sihaq) che alla sodomia (لواط; liwat). Nessuno di quelli che hanno una qualche valenza giuridica viene considerato “autentico” né dalla tradizione islamica classica né dagli studiosi contemporanei di diritto islamico. L’unica eccezione è data da un hadith dedicato a un effeminato (il termine arabo è مخنث; mukhannath) che viveva con una delle mogli di Muhammad. Tale effeminato venne sorpreso da Muhammad mentre descriveva al fratello della moglie un’altra donna. Muhammad si rese quindi conto che l’effeminato non era immune al fascino femminile come si era sempre creduto. Di conseguenza, decise di cacciarlo, ma non perché fosse effeminato: semmai, proprio per il contrario! (4)

Da un punto di vista giuridico esistono soprattutto due ahadith che sono importanti. Secondo il primo il Profeta Muhammad avrebbe detto: “Uccidete chi trovate a commettere l’azione del popolo di Lot, sia l’attivo che il passivo”. Il secondo afferma: “Colui che commette liwat ha commesso zina e colei che combatte sihaq ha commesso zina” (5). Questo hadith sembrerebbe comparare i due “crimini” di liwat (sodomia) e sihaq (tribadismo) a quello di zina, che si riferisce sia all’adulterio che alla fornicazione. Di conseguenza anche la punizione dovrebbe essere la stessa: lapidazione per la persona che abbia già consumato un matrimonio valido, fustigazione negli altri casi.

L’analisi dei due ahadith dimostra che essi sarebbero stati forgiati ben dopo la morte del Profeta Muḥammad, in un’epoca storica in cui i giuristi già dibattevano su come punire il liwat, ed essi servivano semplicemente a legittimare un’opinione a scapito di un’altra.

La presenza di questi ahadith è interessante per tre motivi: da un lato, ci ricorda come molti ahadith non siano ascrivibili al Profeta, ma siano stati creati successivamente per supportare una certa posizione giuridica. Come sostiene Scott Kugle (6), questi ahadith sono stati probabilmente messi in circolazione quando i rapporti omosessuali, soprattutto tra uomini, divennero particolarmente diffusi e socialmente accettati, ossia in epoca abbaside.

In secondo luogo, nonostante i trasmettitori di questi ahadith fossero considerati inaffidabili dai tradizionisti musulmani già nel IX secolo, essi vengono citati fino ad oggi. Questo dimostra che il punto non è se un ahadith sia autentico o meno, ma cosa un determinato giurista voglia dimostrare, nel passato come nel presente.

Il terzo motivo, che rende in particolare il secondo hadith interessante, è che esso criminalizza allo stesso modo il liwat e il sihaq, equiparandoli entrambi ad un crimine di zina. Questo ḥadīṯ viene citato da quei giuristi convinti che il liwat debba essere punito come zina, che però curiosamente ignorano totalmente la seconda parte dell’hadith dedicata al sihaq, per cui ritengono unanimemente che vada applicata una pena discrezionale. Questo, lungi dal dimostrare una presunta tolleranza per i rapporti omoerotici tra donne, secondo me dimostra invece che i giuristi si muovevano in una società androcentrica e fallocentrica in cui la sessualità femminile non veniva presa in considerazione neppure quando doveva essere criminalizzata.

introduzione di Rosanna Maryam Sirignano
testo di Serena Tolino
©2018 Il Grande Colibrì
foto: elaborazione da Pentocelo (CC BY 3.0)

Note:

(1)  Altre “fonti” del diritto islamico sono il ragionamento analogico (qiyas) e il consenso dei dotti (ijma’), ma queste non sono propriamente fonti, quanto approcci che vengono applicati all’interpretazione di queste fonti o che entrano in gioco quando esse non sono sufficienti da sole a risolvere una questione giuridica.
(2) “Liwāṭ im fiqh: Männliche Homosexualität?” (Liwat nel fiqh: omosessualità maschile; in Journal of Arabic and Islamic Studies, 4 (2001-2002), pp. 49-110).
(3) Si veda ad esempio il tafsir di Sayyid Qutb in riferimento alla sura 4 (Le donne).
(4) Si veda a questo proposito l’analisi di Scott Kugle in “Homosexuality in Islam. Critical Reflection on Gay, Lesbian, and Transgender Muslims” (Omosessualità nell’islam: riflessione critica su gay, lesbiche e transgender musulmani; Oneworld Publications, Oxford 2010, pp. 92-97).
(5) Per un’analisi di questi ed altri detti profetici sull’argomento si veda “Omosessualità e atti omosessuali tra diritto islamico e diritto positivo: il caso egiziano con alcuni riferimenti all’esperienza libanese” (Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2013, pp. 72-84) di Serena Tolino.
(6) Kugle, “Homosexuality in Islam”, p. 87.

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“Ecco perché l’islam non condanna l’omosessualità”

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