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Il 6 giugno scorso due giovani tunisini di 26 anni accusati di “sodomia erano stati condannati a scontare due anni di carcere. La sentenza, che fin da subito aveva suscitato lo sdegno di alcune associazioni in difesa dei diritti della comunità LGBTQIA (lesbiche, gay, bisessuali, trans, queer, intersex, asessuali), era stata emessa dal tribunale di Le Kef, una città situata a circa 170 chilometri dalla capitale Tunisi.

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Condanna confermata

Qualche settimana dopo, la condanna è stata purtroppo confermata da una corte d’appello del paese nordafricano. Il fatto che gli anni di prigione siano stati dimezzati, e che quindi i due ragazzi debbano scontare non due, ma “solo” un anno di prigione, non può ovviamente essere considerata una vittoria, né tantomeno una nota positiva.  A confermarlo è Rasha Younes, esperta di tematiche legate ai diritti LGBTQIA e ricercatrice presso l’organizzazione non governativa Human Rights Watch che già in passato aveva stigmatizzato con forza le decisioni del tribunale di Le Kef.

L’enfasi della corte d’appello nel ribadire le accuse di sodomia nei confronti degli imputati e nel privarli della loro libertà per un anno è una grave ingiustiziaha affermato Younes, che non ha mancato di sottolineare quanto sarebbe importante per la Tunisia “rendere omaggio alla sua fama di protettrice dei diritti umani”.  A conclusione del suo discorso, l’esperta ha ribadito l’importanza di abolire completamente” l’articolo 230 del codice penale tunisino, secondo il quale i reati di sodomia possono essere puniti con la reclusione fino a tre anni.

arcobaleno prigione carcere sbarreGli sforzi della difesa

A esprimere grande rammarico e insoddisfazione per l’esito della sentenza è anche Hassina Darraji, avvocata difenditrice di uno dei due imputati. Secondo la legale, che già in passato aveva denunciato le ingiustizie a cui i ragazzi erano stati sottoposti, il processo a carico dei due giovani presenterebbe numerose irregolarità, prima fra tutte il fatto che le presunte “confessioni” sarebbero state estorte con l’uso della violenza. Come da lei stessa dichiarato di fronte al giudice della corte d’appello, i due ragazzi avrebbero infatti subito delle “pressioni inappropriate” da parte dei poliziotti incaricati della loro custodia e sarebbero stati vittime di offese e intimidazioni di ogni tipo.

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Nel corso dell’udienza, Darraji ha inoltre ricordato che il rifiuto dei due giovani di essere sottoposti a un esame anale non può affatto essere considerato una prova di colpevolezza quanto piuttosto il giustificato tentativo degli arrestati di proteggere se stessi e la propria integrità psicofisica. Infine, l’avvocata ha anche sottolineato che la condanna emessa in primo grado dal tribunale di Le Kef sarebbe da considerarsi parziale e arbitraria e costituirebbe una grave violazione dei diritti umani. Disgraziatamente, le sue parole sono rimaste pressoché inascoltate, mentre la condanna per i ragazzi è stata purtroppo riconfermata ed entrambi si trovano tuttora in carcere.

Pur nella sua evidente drammaticità, questa dolorosa vicenda ha quantomeno il “pregio” di aver mostrato con chiarezza le ingiuste discriminazioni che ancora affliggono la comunità LGBTQIA tunisina. La speranza è che la comunità internazionale e lo stesso paese nordafricano scelgano di attivarsi concretamente in favore delle minoranze sessuali così duramente perseguitate. Come affermato da Human Rights Watch, è necessario che il governo tunisino si attivi e si dimostri capace di superare le leggi più arcaiche e restrittive, in contrasto con la sua stessa costituzione. Sembrerà scontato dirlo, ma mai come in questo caso un cambiamento di rotta è necessario.

Nicole Zaramella
©2020 Il Grande Colibrì
immagini: elaborazione da Hans Pohl (CC BY-NC-SA 2.0) / Il Grande Colibrì

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