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L’inizio del 2019 conferma i pericoli vissuti dalla comunità LGBTQIA (lesbiche, gay, bisessuali, trans, queer, intersex e asessuali) salvadoregna, in un paese che già vive situazioni drammatiche: due donne transgender sono state uccise nel solo mese di febbraio, per una triste coincidenza a pochi giorni di distanza l’una dall’altra, e gli attivisti si stanno organizzando per non lasciar cadere nel vuoto questa ennesima tragedia.

Violenza endemica

La popolazione salvadoregna, e quella LGBTQIA in particolare, non è purtroppo nuova agli spargimenti di sangue. El Salvador ha uno dei tassi di omicidio più alti del mondo e la violenza perpetrata dalle gang, e dalle forze dell’ordine che tentano di reprimerle, può essere assimilata a una vera e propria guerra intestina che causa imponenti migrazioni sia interne che esterne, come illustra dettagliatamente il rapporto di Human Rights Watch (Osservatorio sui diritti umani; HRW).

Se l’intero paese, con la sua storia insanguinata, reduce da decenni di massacri e crimini di guerra, soffre per le conseguenze disastrose di un problema anche politico che continua a esacerbarsi, a farne le spese in maniera più dolorosa sono, come spesso accade, soprattutto le fasce di popolazione più fragili e marginali. Già nel 2017 le Nazioni Unite hanno intrapreso un’indagine sull’alto tasso di omicidi di donne transgender, dimostrando come la popolazione LGBTQIA salvadoregna viva nella paura.

Lo stupro, la schiavitù sessuale e l’omicidio ai danni di donne, bambini e membri della comunità LGBTQIA non sono neanche prerogativa esclusiva delle gang, purtroppo: come sottolinea HRW, un’indagine giornalistica del 2017 ha rivelato l’esistenza di squadroni della morte all’interno di unità d’élite della polizia salvadoregna (riconosciuti colpevoli, tra le altre cose, di omicidi e aggressioni sessuali ai danni di molteplici giovani donne) e gli inviati delle Nazioni Unite hanno documentato il clima di minacce e intimidazioni creato dalle forze di sicurezza ai danni della popolazione LGBTQIA.

2 omicidi in 6 giorni

In questo quadro generale, è abbastanza evidente perché due omicidi a distanza tanto ravvicinata facciano pensare a qualcosa di più che a una triste coincidenza temporale. Nella copertura mediatica i due casi si sono fatti eco a vicenda e, complice anche un triste dato biografico, hanno dato nuovo impulso alle battaglie degli attivisti locali.

sagoma morto

Il più recente dei due omicidi ha avuto luogo nella città di Sonsonate, nella parte orientale del paese: l’8 febbraio una giovane donna transgender di appena vent’anni, Lolita, è stata aggredita a colpi di machete da un gruppo di sconosciuti ed è morta in ospedale in seguito alle ferite. Ma è l’altro caso a risultare ancora più emblematico del groviglio di problemi e minacce a cui sono sottoposte le persone LGBTQIA nel Salvador.

La vittima, Camila, una trentenne lavoratrice del sesso, era scomparsa verso la fine di gennaio, mettendo in allarme gli attivisti dell’Asociación Solidaria para Impulsar el Desarrollo Humano (Associazione di solidarietà per promuovere lo sviluppo umano; ASPIDH), un gruppo salvadoregno di difesa delle persone transgender, che l’hanno infine trovata in un ospedale di San Salvador. A quanto risulta, la donna era stata rinvenuta in una strada poco trafficata nella periferia della capitale, ferita, ed è morta in ospedale qualche giorno dopo, il 3 febbraio, a causa delle percosse e delle ferite d’arma bianca.

Morte annunciata

Ciò che fa particolarmente scalpore, però, è che Camila sapeva di essere in pericolo e proprio per questo aveva cercato di fuggire dal paese: spaventata dalle minacce di morte ricevute dalle gang, nel 2018 si era unita a una delle carovane che partivano alla volta degli Stati Uniti. Una storia comune a molti migranti dell’America centrale, del resto, regione segnata da sconquassi politici particolarmente esplosivi in cui gli Stati Uniti hanno responsabilità fortissime. Raggiunta la destinazione, però, Camila è stata arrestata e rimpatriata nel Salvador, dove è andata incontro proprio al destino che stava cercando di evitare.

Questa storia getta una nuova luce sull’incubo dell’emigrazione LGBTQIA in America centrale, sottolineando come la transfobia e l’omofobia (che difficilmente viene accettata come motivazione per concedere lo status di rifugiato, come dimostra il caso di Camila) rappresentino davvero un rischio aggiuntivo per le persone che tentano di fuggire dai loro paesi.

lgbt nel mirino

Elemento, del resto, che diverse testimonianze avevano già messo in evidenza, come quella di Cristel, che in un rapporto di Amnesty International raccontava di essere fuggita proprio in seguito all’ultimatum di una gang: se non se ne fosse andata entro 24 ore, l’avrebbero uccisa. Simili ultimatum sono un tratto comune alle storie di molti migranti e, nel caso delle persone LGBTQIA, vanno spesso a sommarsi all’ostilità familiare e alla violenza pressoché identica perpetrata dalle forze dell’ordine.

Lo spettro dell’impunità

È proprio sul fronte legislativo che i gruppi LGBTQIA salvadoregni stanno cercando di agire, sulla coda di queste ultime violenze. Se, infatti, El Salvador negli ultimi anni ha tentato di compiere passi avanti nella difesa dei diritti istituendo il reato di crimine d’odio e rendendo tecnicamente possibile la punizione dei perpetratori di simili attacchi, la realtà è che dal 2015, anno in cui il reato è stato istituito, nessun caso è stato processato come tale e, stando ai dati di HRW, nessun omicidio di stampo omofobico o transfobico è finora risultato in una condanna.

Le associazioni LGBTQIA hanno presentato esposti alla polizia chiedendo di indagare sugli omicidi di Camila e Lolita e di prendere in considerazione l’elemento transfobico, ma secondo Washington Blade la polizia si è mostrata molto reticente al riguardo, rifiutando di classificare gli omicidi come crimini d’odio perché le morti hanno avuto luogo in ospedale e i referti non accennano al fatto che fossero vittime di violenza.

Ma, come sostiene il sito Gay Star News, la situazione è confusa e presenta risvolti ancora più inquietanti: secondo l’associazione LGBTI Presentes, infatti, alcuni testimoni dell’omicidio di Camila sosterrebbero che siano stati proprio degli agenti di polizia a prelevarla, picchiarla e scaricare il suo corpo a qualche chilometro di distanza da dove lavorava.

La speranza è che, nonostante la situazione convulsa, l’impegno degli attivisti permetta di segnare qualche passo verso il superamento dell’impunità e una sensibilizzazione non solo teorica a quella che resta una crisi umanitaria.

Micol Mian
©2019 Il Grande Colibrì
foto: Il Grande Colibrì

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