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Il corpo penzolante del giovane filippino Jan (nome di fantasia) nel bagno di una società commerciale di Muhaisnah, quartiere di Dubai abitato dai lavoratori sud-asiatici, in fin dei conti si somma a tanti altri cadaveri e si confonde in una poltiglia indistinta di carne in decomposizione che lascia il mondo indifferente.

Schiavi nel Golfo

Le condizioni di lavoro per i sei milioni di operai pachistani, indiani, bangladesi, egiziani e filippini che popolano il paese fanno semplicemente orrore: questi uomini sono praticamente ridotti in schiavitù, maltrattati e costretti a lavorare in condizioni rischiose per stipendi che a volte non raggiungono neppure i 100 euro mensili – e qualcuno non vede neppure l’ombra di un soldo.

La situazione è più o meno la stessa in tutti i paesi del Golfo: le organizzazioni per i diritti umani continuano a raccontarci storie di passaporti confiscati per avere il pieno controllo su questi lavoratori costretti a lavorare per troppe ore di fila senza rispettare nessuna norma di sicurezza, costretti a vivere in abitazioni fatiscenti, costretti a subire umiliazioni e abusi psicologici, fisici e sessuali. Le morti sul lavoro sono semplicemente normali (nel 2022 in Qatar le nazionali di calcio di tutto il mondo giocheranno allegramente in stadi che finora sono costati la vita a più di 1200 operai) e lo stesso si può dire per i suicidi.

sagoma morto

Foto e ricatti

E allora perché perdere tempo con l’ennesimo filippino suicida a Dubai, con un ragazzo che ha deciso di porre fine alla sua giovane vita avvolgendosi una corda intorno al collo? Il suo corpo senza valore – un corpo ridotto a semplice attrezzo da lavoro negli Emirati Arabi Uniti – è stato ritrovato a luglio dell’anno scorso. Vicino a lui un foglio di carta, poche parole scritte a mano, un atto di accusa nei confronti di un ragazzo pachistano di 23 anni, che chiameremo Ansab. Quest’ultimo è stato interrogato e la polizia ha potuto ricostruire tutta la storia.

Jan era gay e, arrivato a Dubai in fuga dalla povertà delle Filippine, ha avuto una storia con un collega pachistano. Hanno fatto sesso insieme e anche qualche foto osé: Jan in alcuni scatti appariva nudo, in altri si vedeva mentre succhiava il suo nuovo amico. Poi il collega è tornato in Pakistan e – per cattiveria, per “leggerezza” o chissà per quale altro motivo – ha inviato le immagini pornografiche al suo connazionale Ansab. E Ansab ha deciso di approfittarne, è andato da Jan e lo ha minacciato: o gli comprava un iPhone 5 o avrebbe mandato in giro le foto con WhatsApp.

Senza alternative

Non sappiamo cosa sia passato per la mente di Jan, ma che cosa poteva fare? Forse avrebbe accettato il ricatto, ma probabilmente non poteva permettersi il costo dello smartphone. E a chi avrebbe potuto chiedere aiuto? Sicuramente non alla polizia, visto che i rapporti omosessuali sono severamente puniti negli Emirati Arabi Uniti. E dove sarebbe potuto fuggire? A Dubai i lavoratori stranieri devono consegnare i passaporti ai datori di lavoro e non hanno nessuna libertà di movimento. L’unica via di fuga aveva la forma e il sapore amaro di un nodo scorsoio.

Jan è morto, come migliaia di altri lavoratori asiatici nei paesi del Golfo. Stretto da una corda e ancor di più da un sistema che non tutela nessuno, e ancor meno chi è omosessuale. Sarà l’ennesima morte inutile?

Pier Cesare Notaro
©2018 Il Grande Colibrì
foto: Il Grande Colibrì

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