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Nella città di Kakuma, nel nord-ovest del Kenya, si trova un campo rifugiati tra i più grandi del mondo. Adatto ad accogliere 70mila persone, oggi ne ospita circa 200mila. Nel campo, co-gestito dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR), dal governo del Kenya e dal Dipartimento per gli affari dei rifugiati del Kenya, risiede un consistente numero di rifugiati LGBTQIA (lesbiche, gay, bisessuali, trans, queer, intersex e asessuali).

Proprio mentre Sophia, una ragazza lesbica,  camminava da sola per le vie dell’immenso campo di Kakuma, un gruppo di otto uomini rifugiati l’ha aggredita: inizialmente l’hanno picchiata, poi “le è stato brutalmente chiesto se è giusto o sbagliato essere lesbica“, come racconta un rifugiato PinkNews, e subito dopo l’hanno stuprata. Fortunatamente è stata trovata poco dopo, a terra e con i vestiti sporchi di sangue, ma ancora in vita, ed è stata trasportata subito in un ospedale del campo.

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Fuori controllo

Purtroppo questo genere di violenze all’interno del campo va avanti da troppo tempo: Sophia è solo l’ennesima vittima di una lunga serie di violenze, causate da un’omofobia ormai fuori controllo che i rifugiati riversano contro le minoranze sessuali. Secondo testimonianze raccolte dalla Reuters, i rifugiati LGBTQIA subiscono stupri, violenze fisiche, minacce di morte. C’è chi gli distrugge gli alloggi, chi gli ferisce i bambini. Vivono costantemente con la paura. E due settimane fa una grossa tragedia ha scosso tutti gli abitanti e i gestori del campo: il suicidio di un rifugiato gay, dalle dinamiche ancora tutte da chiarire. Persino l’UNHCR, affermano gli ospiti del campo, non riesce a gestire quest’emergenza.

cappio impiccato suicidio arcobalenoIntanto a metà marzo All Out, in collaborazione con l’African Human Rights Coalition (Coalizione africana per i diritti umani) e la Refugee Coalition of East Africa (Coalizione dei rifugiati dell’Africa orientale), ha lanciato una raccolta fondi per sostenere i rifugiati LGBTQIA del campo di Kakuma che, con l’eventuale propagarsi del COVID-19, verrebbero maggiormente emarginati. “Da quando è iniziata l’emergenza legata al coronavirus non abbiamo più nessuno che ci aiutiha spiegato a The Star un rifugiato somalo.

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Rifiutati da tutti

Lo scorso anno, per gestire questa difficile situazione, l’UNHCR ha deciso di spostare i rifugiati LGBTQIA in strutture più sicure a Nairobi. Ma siamo in Kenya, e neppure tra le strade della capitale ci si può sentire in salvo, anche perché l’attenzione delle forze dell’ordine keniane verso i soprusi contro le minoranze sessuali sembra essere scarsa e latente, come denunciano i rifugiati. Nel paese, del resto, l’omosessualità è ancora un crimine punito con il carcere: nonostante una contestazione presentata da un attivista LGBTQIA  lo scorso anno, una sentenza dell’Alta Corte del Kenya ha confermato che le sezioni 162 (a) e (c), 163 e 165 del codice penale che criminalizzano i rapporti omosessuali (introdotte dall’impero britannico in epoca coloniale) restano in vigore.

Per questo diversi rifugiati hanno chiesto di essere spostati in paesi più sicuri, ma la richiesta è quasi impossibile da soddisfare: un po’ perché l’iter burocratico richiederebbe anni e un po’ perché i paesi occidentali non accettano rifugiati africani e i paesi africani non accettano rifugiati LGBTQIA.

Ginevra Campaini
©2020 Il Grande Colibrì
immagini: elaborazione da CarenK (CC0) / Il Grande Colibrì

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