“Reclutano i giovani per farli entrare nella comunità gay“: questa è l’accusa che ha spinto la polizia di Mombasa, la seconda città più grande del Kenya, a effettuare un raid contro un’organizzazione non governativa (ONG) per la difesa dei diritti delle persone LGBTQIA (lesbiche, gay, bisessuali, transgender, queer, intersessuali e asessuali). Gli agenti hanno arrestato due attivisti e li hanno interrogati per quattro ore di fila prima di rilasciarli.
Se l’accusa è fumosa e ridicola, l’unica cosa chiara dell’azione sbirresca è che tutto è partito da chiacchiere anonime, come ha spiegato la polizia stessa: “Abbiamo ricevuto lamentele da alcune persone sulle attività dell’organizzazione. Abbiamo fatto un raid e abbiamo preso qualcuno dello staff per fare qualche domanda“. Un’operazione che trasuda professionalità da ogni punto di vista, insomma.
Abusi ricorrenti
Abusi del genere, frutto di una cultura omofoba e dell’arbitrarietà delle forze dell’ordine, sono purtroppo frequenti in Kenya: solo la National Gay and Lesbian Human Rights Commission (Commissione nazionale per i diritti di gay e lesbiche; NGLHRC) ha dovuto affrontare in appena 5 anni più di 3mila casi di ricatti, violenze, stupri e omicidi contro le minoranze sessuali.
Per questo c’è grande attesa per il verdetto dell’Alta corte del Kenya che il prossimo 22 gennaio stabilirà se è incostituzionale la legge che punisce il sesso omosessuale con condanne fino a 14 anni di carcere. La norma, eredità del colonialismo britannico, è applicata raramente, ma purtroppo funziona benissimo come giustificazione per intimidire, discriminare e aggredire chi è percepito come “diverso”.
Pier Cesare Notaro
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