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Theophilus Marboah è uno studente di medicina all’Università di Pavia, che si interessa anche di arte contemporanea africana e afrodiscendente. Nel webdocumentario “Tutti i giorni \\ everyday” realizzato e prodotto da Kibra Sebhat e WeWorld, Theophilus – o Theo – parla di come si rapporta alle rappresentazioni, spesso negative, delle persone afrodiscendenti in Italia. Un rapporto che parte dalla dimensione intima della quiete.

Buongiorno Theo, come stai?

Ciao Stefano, un po’ infreddolito ma sto bene, grazie.

Sei di Verona, giusto?

Sì, sono di Verona. Nato e cresciuto nella terra del pandoro. Sulla carta sono uno studente di medicina. Ma le mie giornate sono anche scandite dal mio profondo interesse per l’arte contemporanea africana e diasporica.

Hai partecipato alla prima puntata del webdocumentario “Tutti i giorni \ Everyday”: perché hai scelto di partecipare?

La webserie è stata scritta dalla giornalista Kibra Sebhat ed è stata realizzata in collaborazione con Tapeless Film e in partnership con il Corriere della Sera. Ero stato contattato da Kibra nella prima metà del 2020 e ho accettato volentieri l’invito a partecipare al documentario: da sempre stimo il suo lavoro.

Ti va di spiegarci di cosa tratta il documentario?

Gli episodi raccontano la quotidianità che vivono i cosiddetti “nuovi italiani”. Una quotidianità che passa volutamente inosservata, ma che rappresenta le foglie sempreverdi dell’albero della migrazione. Le radici di quest’albero sono bagnate dalle acque delle terre d’origine. Il tronco fa da ponte tra queste e l’Italia. E le foglie, sorrette dalle ramificazioni del viaggio (quello dei propri genitori o il nostro), danno vita a quella realtà che molto spesso fatica a riconoscerne il valore e il contributo.

Nella puntata affronti, con il cantautore David Blank, la questione dell’essere nero e italiano oggi. Alla fine della vostra conversazione, emergono due modi distinti di resistere alla narrazione e alla rappresentazione negative delle persone afroitaliane. Quello di David è più esplicito, mentre il tuo è silenzioso. Ce lo puoi spiegare?

Nell’episodio, riprendo il pensiero di Kevin Quashie. Nel suo libro “The Sovereignty of Quiet: Beyond Resistance in Black Culture” (La sovranità della quiete: Oltre la resistenza nella cultura nera; Rutgers University Press 2012, 204 pp.), Quashie esplora l’interiorità del soggetto nero. Una dimensione atemporale, estranea al linguaggio razziale che domina il mondo dell’esteriorità. Quando pensiamo alla storia delle persone africane e afrodiscendenti, la resistenza è forse la prima peculiarità con cui descriviamo la nostra storia.

Ma il nostro quotidiano non sempre è vissuto in resistenza. Non sempre è plasmato dal linguaggio razziale. E non riconoscere questa cosa vuol dire non riconoscere la pienezza della nostra umanità. Lontano dalle distrazioni dell’esteriorità (“La vera funzione del razzismo è la distrazione” diceva Toni Morrison ), l’individuo nero ritrova se stesso. Ritorna a dimorare presso di sé. Nello spazio dell’interiorità, uno spazio definito da Quashie col concetto di “quiete”, il soggetto nero coglie i riverberi dei suoi desideri, delle sue attese, dei suoi ricordi, delle sue paure. Il soggetto nero contempla il nucleo del suo vivere umano. È questa la dimensione che abito: la dimensione della quiete.

Sembra un percorso di presa di coscienza di sé piuttosto complessa e lunga. Ci puoi dire qual è stato il tuo?

Non so dirti qual è stato il punto di inizio del mio percorso. Senza saperlo, credo di essere stato consapevole della mia nerezza sin da bambino. Penso alla mia infanzia: il mio Power Ranger preferito era Zach, quello nero… e non credo sia stato un caso. Certamente, il linguaggio per articolare la mia esperienza è arrivato dopo, e tutt’ora cerco di costruirlo. L’aiuto più grande viene dalle voci diasporiche che giungono dall’altra parte dell’Atlantico. L’interesse per e l’esposizione all’esperienza afroamericana sono stati per me la porta d’ingresso. Mi hanno permesso di pensare alla mia nerezza in un contesto globale. E trovare punti di continuità e discontinuità con le varie realtà diasporiche.

theophilus marboah bronzino sitouIn varie situazioni, però, il razzismo e la xenofobia del mondo dell’esteriorità mettono alla prova, in modo anche violento, l’individuo appartenente a una minoranza etnica, nel nostro caso una persona italiana afrodiscendente. Come rispondi alla xenofobia, tu che vivi nella dimensione interiore della quiete?

Se il discorso è collettivo, non credo spetti a noi rispondere. Non mi piace farlo, ma mi permetto di usare un “noi” riferendomi alle persone nere in Italia. Il razzismo, anche nelle sua forma più violenta, non è una novità. Uccide dal 25 agosto 1989. Da tre decenni ci presentiamo davanti alla porta della legge. Fino a quando verremo lasciati fuori? A questo non so rispondere. Ma so che non riusciremo mai a entrarvi finché non si presenteranno anche i cittadini che non risentono degli effetti del razzismo sulla propria pelle. Per volare, al passero servono due ali.

Attraverso le tue opere artistiche, visibili sul tuo profilo Instagram, cerchi di instaurare un dialogo tra realtà in apparenza diverse. Un’opera in particolare mi ha colpito: quella in cui metti la foto, scattata nel 1978, di un giovane maliano che regge la cornetta di un telefono accanto al ritratto, dipinto dall’artista Claude Deruet, di una nobildonna del Seicento la quale, nelle vesti della dea Diana, regge un corno da caccia. Credi che il dialogo sia ancora possibile nel 2020, ora che anche in Italia c’è un dibattito molto acceso sul tema del “blackface” e della rappresentazione dei corpi non-bianchi nei media nostrani?

Il dialogo è ancora possibile. Ed è proprio in momenti come questo che è necessario. In tutto questo rumore che distrae, sono convinto ci siano ancora il tempo e lo spazio per l’ascolto. L’esercizio dell’ascolto. Che deve essere praticato da coloro che godono dei privilegi di cui noi non godiamo.

theophilus marboah deruet sidibeStando agli ultimi sondaggi, che premiano la Lega e Fratelli d’Italia, nonché al rifiuto generale di affrontare il passato coloniale dell’Italia, sembra che chi gode dei privilegi, di cui noi due non godiamo in quanto italiani afrodiscendenti, non sia totalmente pront@ ad ascoltarci. Non pensi che bisognerà, a un certo punto, costringere “l’altra ala” a sedersi e ad ascoltarci, tenendo presente anche che la nostra generazione ha una responsabilità nei confronti delle nuove generazioni, definite come straniere pur essendo (come noi) italiane?

Hai ragione. Ma è anche vero che il numero di persone che vota per i partiti nominati (e ci aggiungo pure Forza Italia) non raggiunge il 50% dei votanti. I numeri, in teoria, sono quindi dalla nostra parte. Ma sappiamo che le dinamiche della società sono ben più complesse. Le persone che votano per quei partiti non scenderanno mai in piazza rivendicando i diritti di coloro che hanno un retroterra migratorio. Quelle persone infatti non condividono la nostra immaginazione civica.

Questa immaginazione però ha il potenziale di essere condivisa con la restante percentuale dei votanti. Loro sono i potenziali alleati nella lotta. Ma questa alleanza non può dare risultati se il loro schieramento è solo performativo. Essere “woke” [essere consapevole delle ingiustizie sociali, in particolare delle forme di razzismo e delle disuguaglianze di genere, ndr] è una cosa. Assumersi le responsabilità nel perseguire la giustizia è un’altra.

Siamo arrivati alla fine della nostra chiacchierata, Theo. Vuoi aggiungere qualcosa?

Voglio solo aggiungere i titoli di due libri che usciranno in Italia tra pochi mesi e che saranno di grande aiuto nella continua costruzione del linguaggio: la traduzione italiana, edita da Einaudi, di “The Shadow King” (Il re ombra) di Maaza Mengiste, e quella di “Undercommons. Pianificazione fuggitiva e studio nero” (Tamu 2021, 200 pp., 15€) di Fred Moten e Stefano Harney.

Stefano Duc
©2020 Il Grande Colibrì
immagini: ©Theophilus Marboah
Sx: “Bacco”, 1598 circa, Caravaggio. Dx: “Ritratto di Manziga, Avungura, capo degli azande”, 1910-1915, Herbert Lang.
Sx: “Ritratto di Eleonora di Toledo col figlio Giovanni”, 1545, Agnolo Bronzino. Dx: Fotografia di Malick Sidibé, 1973.
Sx: “Ritratto di signora nelle vesti di Diana”, XVII secolo, Claude Deruet. Dx: Fotografia di Tijani Sitou, 1978 circa.

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