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La modella sudafricana Zozibini Tunzi è stata incoronata Miss Universo 2019. Tunzi è una ragazza nera*, un dato che in un mondo ideale non sarebbe da sottolineare, ma che lei stessa ha voluto rimarcare: “Sono cresciuta in un mondo in cui una donna con il mio aspetto, con la mia pelle e i miei capelli, non è mai stata considerata bella e penso che sia ora che questo finisca“. A questa presa di posizione estetica e politica, Il Grande Colibrì ha dedicato un’immagine su Facebook che è stata vista da circa 200mila persone. I commenti sono stati molti, tra cui chi chiedeva di accettare il fatto che “alcune caratteristiche etniche non sono attraenti” o che “i neri sono brutti” e chi ci accusava di non accettare la libertà di proclamarlo anche “in modo rozzo“.

Ma in realtà qui non vorrei soffermarmi su questo tipo di reazioni, anzi vorrei partire da un commento che a prima vista andava in direzione esattamente contraria, perché “difendeva” la pelle nera: “È l’estate anche in inverno“. In questa immagine poetica ho riconosciuto una certa efficacia tecnica, ma soprattutto mi ha colpito la sua totale stupidità, che mi mette in imbarazzo solo a ricordarla. Dietro la sua sciocca inconsistenza, però, questa frase nasconde un leitmotiv ben noto: si continua a usare la pelle bianca (quella che diventa “nera” solo in estate, appunto) come unità di misura della melatonina di qualsiasi essere umano. Succede lo stesso quando ci ripetiamo che la prova della bellezza della pelle nera sta nel fatto che i bianchi cercano sempre di abbronzarsi.

Bellezze da giustificare?

Ora, proviamo a fare un piccolo esperimento. Se vi dicessi che Josh Henderson è bello perché tante persone nere usano creme sbiancanti per avere la pelle più chiara, mi dareste del cretino, no? E allora spiegatemi perché ci dovrebbe essere anche solo una vaga forma di buonsenso nell’affermare che Laverne Cox è bella perché tante persone bianche vogliono abbronzarsi. In altre parole, perché le scelte di alcuni bianchi dimostrerebbero la bellezza dei neri, ma non vale il contrario?

josh henderson laverne coxLa risposta credo che sia semplice, anche se fastidiosa: crediamo che la bellezza bianca splenda di luce propria, mentre quella nera sembra che debba essere giustificata – e che debba essere giustificata prendendo come metro, guarda caso!, il corpo e le scelte dei bianchi. Che è un altro modo per dire che la bellezza bianca è “vera” e quella nera no, continuando ad alimentare un razzismo estetico (che diventa razzismo estetico interiorizzato nelle persone nere, come dimostra proprio la volontà di “cancellare” alcune caratteristiche come la pelle scura o i capelli ricci) che si affianca al razzismo culturale e che lo rafforza: il valore del nero (e del suo aspetto) non viene riconosciuto come una sua caratteristica connaturata, ma come qualcosa che ottiene grazie all’azione del bianco, in ragione delle scelte del bianco.

E invece sarebbe proprio ora di riconoscere che la bellezza delle persone nere non è una gentile concessione dei bianchi, non ha bisogno della loro paternalistica benedizione, di una loro generosa certificazione. Alek Wek o Fab Morvan sono belli e basta, e lo rimangono indipendentemente dal fatto che il pubblico bianco lo riconosca o no. E lo rimarranno anche se tutti i bianchi del mondo spenderanno tutti i loro soldi in lampade abbronzanti e vacanze ai Tropici o in creme solari protezione 100. La bellezza dei neri non ha bisogno dell’approvazione dei bianchi, delle attestazioni dei bianchi, delle spiegazioni dei bianchi, esattamente come è vero il contrario.

alek wek fab morvanUna scelta deliberata

Che poi non ci farebbe neppure male riconoscere tutti quanti che il concetto di bellezza (e, tanto per evitare fraintendimenti, anche quello di attrattiva sessuale) è socialmente e culturalmente costruito, e che questa costruzione è ovviamente e inevitabilmente influenzata da tutti i valori che circolano all’interno della società, nel bene e nel male. E questo fatto non è particolarmente nuovo, anzi è persino banale: senza fare un balzo di 20mila anni con le Veneri del paleolitico, positivo simbolo di fertilità per i nostri più antichi antenati, che oggi sarebbero additate come obese in un misto di scherno ed esecrazione, basti ricordare che le pin-up di inizio ‘900 nella nostra “tollerante” società avrebbero posto solo nelle pubblicità sui drammi della cellulite.

venere paleolitico clara bowQualcosa di simile è avvenuto per il legame tra colore della pelle e bellezza. Anche solo soffermandoci sull’iconografia europea, pensate alle rappresentazioni medievali di Baldassarre, il re magio dipinto come nero e indubitabilmente stupendo da innumerevoli artisti come Gerard David o Hieronymus Bosch. In un celebre dipinto di Bartolomé Esteban Murillo, Baldassarre ha la pelle scurissima, tratti delicati e un’espressione dolcissima, e tutte queste caratteristiche non sono in contrasto tra loro. Ovviamente.

baldassarre re magio neroEppure questo contrasto viene trasformato in “ovvio” nelle rappresentazioni ottocentesche, in cui la pelle nera diventa sinonimo di un aspetto rozzo e grottesco. Sono cambiati i gusti degli europei? No, hanno deliberatamente cambiato i propri gusti.

black sambo angelfood mcspadeIl corpo nero disintegrato

Per giustificare le aberrazioni del colonialismo, bisogna dimostrare l’inferiorità delle popolazioni non europee e si decide di farlo basandosi sul dato visivo più evidente: il colore della pelle. Mentre per gli asiatici orientali ci si inventa che hanno la pelle gialla (e ricordiamo che gli scritti dei viaggiatori pre-coloniali sono unanimi nel dire che, rispetto agli europei, queste popolazioni hanno tratti somatici differenti, ma lo stesso colore), il corpo nero viene disintegrato in un insieme di dettagli isolati e distorti.

Pseudo-scienziati stabiliscono, senza ovviamente nessuna logica, che la diversa forma del cranio nero indicherebbe scarsa intelligenza, mentre altri studiano l’elasticità degli ani neri (sic!) per “scoprire” una naturale propensione all’omosessualità. Il grosso pene nero diventa la dimostrazione di istinti sessuali brutali e animaleschi. Ed è una tradizione che sopravvive ancora oggi e che si rinnova con tutte le teorie da bar (“non sono razzista, è un dato di fatto”) sul sapore e l’odore della pelle nera. E con il giudizio sulle “labbra grosse” (rozze nei neri, carnose nei bianchi), sui “capelli ricci” (che esprimono personalità nelle bianche, ferinità nelle nere). Il corpo nero viene cancellato, al suo posto si presenta un ammasso di dettagli analizzati con lenti deformanti.

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Dove meno te lo aspetti

Certo, oggi tutto è molto edulcorato, anche se non mancano, per esempio, pubblicità di discoteche gay dove il nero è rappresentato come lo scimmione, con tanto di contorno di banane (“ma non è razzismo, i bianchi lo venerano come il re della giungla!”). E però il discorso inventato dal colonialismo emerge continuamente persino in tante persone che si dicono attratte dal corpo nero, che “difendono” il corpo nero, che lo trasformano in un feticcio. La caricatura scimmiesca riecheggia nelle descrizioni delle donne nere come più “impetuose” e  “istintive”, il mito del “buon selvaggio” riappare nell’esaltazione dell’uomo nero sessualmente incontrollato e meno frenato dai condizionamenti dalla civiltà.

gorillas serata discoteca gayQueste osservazioni da bar, che affondano le radici nell’immaginario colonialista e si nutrono del paternalismo di chi rimpiange, dall’alto del suo credersi bianco e civilizzato, tempi mitici e pre-civili che fa incarnare al nero, sono state scritte e riscritte mille volte da turisti sessuali che hanno presentato le dinamiche classiche della prostituzione in “illuminanti” spiegazioni di mondi interi. E i loro scritti, nonostante una qualità infima, non solo sono stati pubblicati, ma continuano a essere considerati “sociologia” o “letteratura”. Il delirante “saggio” pornografico di Gianni De Martino in “Arabi e noi”, per esempio, è presente addirittura in molte bibliografie universitarie, nonostante sia un’accozzaglia dei più imbarazzanti luoghi comuni razzisti.

Sono solo “gusti personali”?

Ma tutto questo viene affrontato con un’alzata di spalle, come se non nascesse dalle necessità di una politica di oppressione, schiavizzazione e sterminio e come se non ci fosse nessun legame con le peggiori espressioni del razzismo odierno. Nessuno oserebbe scrivere sul proprio profilo in un sito di incontri “no ebrei” (“perché hanno gli occhi cadenti”, “perché troppo lussuriosi”, “perché ti seducono per sfruttarti” – tutti stereotipi per fortuna caduti nell’oblio), mentre è comunissimo leggere no neri” o “no extracomunitari (che probabilmente non vuol dire “sì ai lombardi neri, no ai ticinesi bianchi“). Ovviamente ti spiegano che anche in questo caso “non è razzismo”, ma solo l’espressione di “gusti personali – e i gusti personali mica si discutono, no?

E invece sì: quando i gusti coincidono con le radici stesse della retorica del razzismo (non di un’idea generica di razzismo, ma proprio del razzismo come ideologia esplicita sull’inferiorità di alcuni gruppi umani), farsi qualche domanda sembra decisamente il minimo. Ed è ipocrita e falso parlare di “gusti personali” quando un numero sempre maggiore di indagini statistiche e studi scientifici ci ripetono che l’esclusione in campo estetico ed erotico è molto più diffusa tra chi fa parte del gruppo più privilegiato (i bianchi) e colpisce molto di più il gruppo più discriminato (i neri).

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Non c’è nulla di “personale” in un fenomeno culturale così esteso e comune. Potete rifugiarvi quando volete nell’illusione che il vostro rigetto di alcune etnie non abbia nulla a che fare con il razzismo, potete rifugiarvi nel vittimismo di chi, in modo ridicolo, pretenderà di leggere in queste righe un’inesistente imposizione ad andare a letto con qualcuno. La realtà è molto più semplice: quando difendete i vostri presunti “gusti personali” su base razziale e il diritto di sbandierare il vostro disprezzo estetico verso alcune etnie, non state difendendo voi stessi dall’accusa di razzismo: state difendendo il razzismo (il razzismo dentro di voi e il razzismo nella società). E state negando la bellezza.

* Le categorie del “bianco” e del “nero” (cioè del “non bianco”) sono evidentemente categorie immaginarie, talmente prive di fondamento da aver generato tentativi sempre più assurdi per cercare di darne una definizione vagamente oggettiva (fino alla “one-drop rule”, la regola per cui negli Stati Uniti bastava “una singola goccia di sangue” nero per essere classificati come neri). Nonostante siano immaginarie, queste categorie hanno costruito identità molto forti e hanno generato enormi effetti sugli individui e sulle società. In questo articolo, uso i termini “bianco” e “nero” per semplicità espositiva per indicare queste categorie culturalmente costruite, non per sostenere una loro inesistente fondatezza (scientifica, morale o di altro genere).

Pier Cesare Notaro
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