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Tre settimane fa. Ahmed (nome di fantasia) bussa alla porta del ragazzo che ha conosciuto su Facebook. Lui gli apre. Ahmed entra e scopre un altro uomo: non era nei patti. Ahmed dice che vuole tornarsene a casa. I due sconosciuti lo picchiano. Lo violentano. E alla fine lo cacciano fuori tenendosi tutti gli oggetti preziosi che aveva con sé. Ahmed fa la cosa che gli sembra più ovvia e giusta: va dalla polizia e sporge denuncia. I suoi aggressori vengono subito individuati e arrestati. Ma in carcere finisce anche Ahmed.

Il reato di sodomia

La vittima di aggressione, stupro e furto per il sistema giudiziario tunisino è colpevole di aver violato l’articolo 230 del codice penale, che punisce la “sodomia” con il carcere fino a tre anni e che continua a essere applicato in decine e decine di casi. E in carcere Ahmed è continuamente molestato dagli altri detenuti, come spiega sua madre attraverso l’Association des Jeunes de Sfax pour la Démocratie et les Libertés (Associazione dei giovani di Sfax per la democrazia e le libertà). Per la donna, lo stato avrebbe dovuto offrire a suo figlio un sostegno psicologico dopo la violenza, non il nuovo trauma della prigione.

E come se non bastasse il giudice ha anche deciso che Ahmed sarà sottoposto a un test anale per verificare “se è abituato alla sodomia“. Questa pratica pseudo-scientifica, che consiste nell’osservare l’ano e nel saggiarne l’elasticità con dita o oggetti, non solo porta a risultati del tutto inattendibili, ma è talmente degradante da essere generalmente considerata una forma di tortura psicologica. I test anali sono stati sconfessati esplicitamente anche dall’ordine dei medici tunisini.

dito

Video sul cellulare

Quello di Ahmed non è stato l’unico arresto per sodomia in Tunisia a gennaio. Davanti ai giudici è finito anche Khaled (altro nome di fantasia), un ingegnere tunisino di 32 anni che era rientrato nel paese per passare le vacanze. La polizia ha scoperto per caso sul suo cellulare, violando in modo evidente il suo diritto alla privacy, alcuni filmini in cui faceva sesso con il suo fidanzato siriano a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti. “Si sono messi a guardare i video, insultandomi e denigrandomi, come se fossi una bestia al circo” racconta il giovane.

La procuratrice della repubblica ha avuto un atteggiamento da predicatrice, ricordando a Khaled come i rapporti sessuali tra uomini siano considerati “haram” (vietati dalla religione) e consigliandogli di pentirsi e di seguire la parola di Dio. E, tanto per non farsi mancare nulla, ha pure aggiunto una sciocchezza scientifica: l’omosessualità causerebbe malattie.

Comunque vada la vicenda giudiziaria, la vita di Khaled sta andando a rotoli: a causa dell’arresto non è potuto rientrare a Dubai alla fine delle ferie e per questo è stato licenziato, perdendo anche il permesso di soggiorno negli Emirati Arabi Uniti.

Cancellare il reato

Queste storie drammatiche dimostrano sempre più la necessità di cancellare l’articolo 230: se l’unanimità è ancora lontana, l’abrogazione del reato è reclamata a gran voce tanto da molte associazioni tunisine quanto dalla Commission des Libertés Individuelles et de l’Égalité (Commissione delle libertà individuali e dell’uguaglianza; COLIBE), voluta dal presidente della repubblica. Ed è favorevole anche il sindacato degli imam, il cui segretario generale ha fatto una sorprendente apertura anche ai matrimoni tra persone dello stesso sesso. La strada è lunga, ma la meta non sembra più irraggiungibile.

Pier Cesare Notaro
©2019 Il Grande Colibrì
foto: elaborazione da pngimg (CC BY-NC 4.0)

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One Comment

  • Alben ha detto:

    Sembra essere un po’ contraddittoria tutta questa apertura da parte della commissione voluta dal presidente tunisino e dagli stessi iman con l’applicazione pedissequa e ottusa di questa legge da parte delle autorità giudiziarie.

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