Skip to main content

Dallo scorso autunno, la Tunisia è attraversata da un’ondata di movimenti sociali, scatenati dalla repressione della polizia, in un quadro sociale gravemente compromesso dalle crisi sanitaria ed economica causate dalla pandemia di COVID-19. In questo contesto, la violenza della polizia non solo si accanisce in modo particolare su giovani (principalmente dei quartieri periferici e delle regioni dell’entroterra), ma anche sulla comunità LGBTQIA (lesbiche, gay, bisessuali, trans, queer, intersex e asessuali), e in modo particolare sull’associazione Damj (Inclusione). L’obiettivo è quello di far saltare la convergenza di lotte tra categorie sociali marginalizzate e precarizzate che reclamano dal dicembre del 2010, quando iniziò la rivoluzione araba, “lavoro, libertà, dignità”.

Per parlarne più approfonditamente, abbiamo contattato Abir Krefa, docente di sociologia all’università Lyon 2, specializzata in movimenti sociali e in questioni di genere e di sessualità. È lei che ha lanciato il crowdfunding per sostenere Damj e le persone LGBTQIA vittime di persecuzione in questi mesi, a cui possiamo partecipare con una donazione.

Cosa ha scatenato questa ondata di contestazioni sociali e in quali città tunisine hanno avuto luogo le manifestazioni?

La contestazione sociale è iniziata dopo una serie di abusi violenti delle forze dell’ordine. Il 15 gennaio ci sono stati degli scontri a Siliana [una città del nord della Tunisia, ndr] tra giovani di periferia e agenti di polizia, dopo la diffusione di un video, diventato virale su internet, in cui un pastore veniva aggredito dai poliziotti. La contestazione ha raggiunto poi altre regioni e le periferie di altre città, incluse quelle di Tunisi, come ad esempio il quartiere di Ettadhamen. Qualche giorno prima, una manifestazione dei tifosi della squadra di calcio Club Africain è stata repressa violentemente dalla polizia, che ha arrestato diversi supporter, riprendendoli in posizioni umilianti.

Tutto questo accade in un situazione di grande crisi economica, in cui il tasso di povertà è aumentato considerevolmente. La crisi sanitaria e le misure restrittive imposte dal governo hanno privato del loro reddito molte persone e famiglie, in particolar modo coloro che lavorano nell’economia informale. Alcune settimane più tardi, piccol@ agricoltori e agricoltrici della regione di Chebba [una città della costa orientale della Tunisia, ndr] hanno dato vita a un’importante protesta contro l’aumento del prezzo del mangime.

Quali sono le rivendicazioni di chi manifesta?

Sono le stesse della rivoluzione: “lavoro, libertà, dignità nazionale”, ovvero la fine della brutalità della polizia, il diritto a lavorare mentre il tasso di disoccupazione è schizzato in alto, e in certi casi, come in quello dell@ militanti LGBTQIA, quello di poter disporre del proprio corpo.

tunisia manifestazione rivoluzione protesteC’è stata una risposta da parte delle autorità rispetto alle rivendicazioni di chi manifesta? Se sì, quali sono state?

L’unica risposta delle autorità tunisine è stata la repressione. Le autorità tunisine non sono in grado di rispondere alle aspirazioni socioeconomiche delle classi popolari, e del ceto medio che si sta impoverendo, se non attraverso un cambio radicale delle politiche economiche. Tuttavia, i margini di manovra dello stato tunisino sono limitati perché è molto indebitato, soprattutto nei confronti dell’Unione Europea (UE). La prima voce per importanza del bilancio tunisino è infatti il servizio del debito, che pesa molto di più rispetto alla dotazione finanziaria del ministero della salute.

Inoltre, il Fondo Monetario Internazionale (FMI) impone da decenni delle politiche di aggiustamento strutturale che hanno portato al disimpegno dello stato nei settori dell’istruzione e della sanità pubbliche, le quali sono state, per tanto tempo, i settori che più hanno creato posti di lavoro in Tunisia.

Quindi, non potendo rispondere alle richieste delle persone che manifestano, lo stato le reprime in modo brutale, è così?

Esatto. E il movimento continua a espandersi, coinvolgendo le classi sociali più abbienti, ma soprattutto l@ giovani declassat@, o minacciat@ di declassamento, come dimostra il sit-in in corso dal 2 marzo, organizzato da giovani medich@ davanti alla sede del ministero della salute. La repressione dei movimenti sociali da parte del governo si iscrive nella volontà di porre fine alle principali conquiste della rivoluzione del dicembre 2010: la libertà di organizzarsi politicamente (libertà di riunione, di associazione, eccetera), e, in minor misura, la libertà di manifestare (le manifestazioni e i sit-in si sono sempre tenuti sotto la stretta sorveglianza della polizia, oppure sono sempre stati parzialmente repressi).

Fa parte di questa volontà il progetto di legge per rafforzare la protezione legale degli agenti di polizia e dei loro familiari, sottoposto al voto del parlamento lo scorso autunno. In sostanza, questa legge avrebbe dato un ulteriore margine di azione alle forze dell’ordine, e dunque maggiori possibilità di commettere abusi contro l@ cittadin@. C’è stata una mobilitazione contro questo progetto di legge, che non è stato votato. Ma si potrebbe trattare, forse, di un semplice rinvio.

pugno aggressivo violenzaIn un comunicato stampa sottoscritto da numerose associazioni tunisine e svizzere, si parla di 1700 persone arrestate, di cui 300 sono minorenni. Qual è la loro situazione da quando sono state arrestate? E ci sono stati altri arresti?

Gli arresti e le condanne in tribunale continuano. Le contestazioni degli agricoltori e delle agricoltrici sono state represse duramente. Ci sono abitanti dei quartieri periferici e militanti di associazioni, sindacati e partiti politici che sono stat@ rapit@ nei luoghi pubblici o in casa. Tuttavia, le persone LGBTQIA, militanti e non, sono oggetto di un accanimento poliziesco e giudiziario particolare. Le violenze contro di loro sono diffuse e sono inferte dalla polizia e dalle istituzioni giudiziarie, ma non solo.

In effetti, la comunità LGBTQIA tunisina, già vittima dell’omotransfobia molto radicata nella società, è il bersaglio principale degli abusi della polizia. Il pestaggio in pubblico, con la complicità di poliziotti, di Badr Baabou, presidente dell’associazione Damj il 10 marzo 2021, ne è la prova più recente. Ultimamente, tutt@ l@ militanti LGBTQIA che hanno partecipato a delle proteste negli ultimi mesi sono stat@ rapit@, pestat@, mess@ in stato di fermo senza un motivo, oppure incarcerat@ dopo un processo. La repressione colpisce anche altr@ militanti, principalmente studenti, sindacalist@, femministe, militanti anarchich@ e di sinistra.

Tuttavia, è particolarmente feroce e sistematica nei confronti dell@ militanti LGBTQIA. Secondo lei, perché la polizia tunisina si accanisce così tanto sulla comunità arcobaleno?

Innanzitutto, bisogna sapere che gli abusi della polizia contro le persone LGBTQIA sono strutturali in Tunisia. Inoltre, molt@ militanti della comunità LGBTQIA sono stat@ tra l@ prim@ a sostenere le proteste delle periferie popolari. Questo è dovuto al fatto che la maggior parte delle persone LGBTQIA tunisine proviene dalle classi popolari e lavora nel settore informale (che include anche il sex work), il quale, come ho accennato prima, è stato colpito in pieno dalle restrizioni agli spostamenti dovute al COVID-19.

D’altra parte, per tante persone LGBTQIA appartenenti alle classi sociali popolari, non era più possibile rimanere in quarantena e rispettare le direttive sanitarie a causa della mancanza di reddito. Queste persone hanno dunque dovuto infrangere le direttive sanitarie, durante il primo lockdown, per poter andare a lavorare. Di conseguenza, sono state le prime persone a essere sanzionate dalle forze dell’ordine, i cui poteri repressivi sono stati ampliati dal lockdown di marzo 2020. Il risultato è stato che gli abusi delle forze dell’ordine contro le persone LGBTQIA sono aumentate in modo esponenziale dal primo lockdown, nonostante siano strutturali.

donna mascherina covid coronavirusIn che modo questi abusi hanno luogo?

Nel caso specifico delle persone LGBTQIA possono prendere la forma di molestie o di minacce nei loro confronti, o nei confronti delle loro famiglie, collegh@, amich@, o proprietari@ delle case in cui abitano. Per isolare le persone LGBTQIA, i poliziotti chiamano le famiglie, o l@ proprietari@ delle case per svelare l’identità di genere e/o l’orientamento sessuale delle loro vittime. Infatti, molte di loro sono state cacciate da dove vivevano.

Inoltre, il codice penale tunisino dispone di una legge, l’articolo 230, che punisce i rapporti sessuali tra persone dello stesso sesso. Tuttavia, nel 2018, l’Alto commissariato ONU per i diritti umani (UNHCHR) raccomandò di non applicare più quella legge, in quanto discrimina le persone in base all’orientamento sessuale. Di conseguenza, le forze dell’ordine e la magistratura ricorrono ad altri articoli di legge per arrestare e incriminare le persone LGBTQIA, militanti e non.

Come dimostra il caso dell’attivista di Damj Rania Amdouni, i poliziotti utilizzano spesso l’articolo che punisce “l’oltraggio ad agente della pubblica funzione” per mettere le persone in stato di fermo. In altri casi, le persone LGBTQIA sono arrestate per “ubriachezza in luogo pubblico” o per consumo di cannabis. Siccome questi articoli di legge vengono utilizzati in modo pretestuoso non solo contro le persone LGBTQIA, è diventato ancora più difficile fornire delle prove delle discriminazioni di cui queste ultime sono vittime.

Con la condanna di Rania Amdouni a sei mesi di carcere, e il pestaggio di Badr Baabou, l’impressione è quella che l’ONG Damj sia nel mirino della polizia tunisina. Secondo lei, perché?

Credo sia dovuto, da un lato, al fatto che Damj si era schierata tra le prime file delle proteste contro il progetto di legge per il rafforzamento della “protezione” legale degli agenti delle forze dell’ordine, nell’autunno del 2020. Damj è diventata più visibile, e quindi più esposta agli attacchi della polizia. Dall’altro lato, le forze dell’ordine e la giustizia cercano di dividere il movimento sociale, prendendo di mira in modo specifico l@ attivist@ LGBTQIA che sono sces@ in piazza e approfittando dell’omofobia e della transfobia presenti in tutta la società, compreso il movimento sociale stesso.

Una delle caratteristiche di questa nuova ondata di contestazione sociale in Tunisia che salta agli occhi è l’abbozzo di convergenza delle lotte di diverse categorie sociali: giovani di periferia, attivist@ femminist@ e LGBTQIA, anarchich@, sindacalist@, studenti… Come ha menzionato prima, Damj e altri collettivi queer sono stati tra i primi ad appoggiare i manifestanti delle periferie. Come è stato accolto questo sostegno?

All’inizio, questo sostegno è stato accolto piuttosto bene: si sono potute svolgere manifestazioni unitarie, in cui ogni gruppo rivendicava contemporaneamente la propria istanza politica. È un fatto inedito. Fino ad allora, l@ attivist@ LGBTQIA che prendevano parte a delle proteste tendevano a evitare di mostrare questa loro identità, sebbene manifestassero in gruppo.

L’intersezionalità delle lotte è un tema sul quale le ONG LGBTQIA riflettono da alcuni anni, così come lo fanno altre associazioni e piccoli partiti, soprattutto l@ loro militanti più giovani. In effetti, l@ giovani politicamente impegnat@, e vicin@ ai partiti di sinistra e di estrema sinistra, sono più sensibili alle rivendicazioni delle femministe e della comunità LGBTQIA. Questo perché si sono format@ politicamente durante gli anni del processo rivoluzionario, in un contesto di grande politicizzazione delle questioni legate al corpo e alla sessualità. La rivendicazione della dignità corporale è un tema centrale dal dicembre 2010.

vittoria movimento lgbt tunisiaE adesso questa convergenza delle lotte regge ancora, in particolar modo quella tra collettivi LGBTQIA e quartieri di periferia?

Purtroppo no, dato che l’omofobia e la transfobia della società tunisina hanno fatto sì che la presenza di militanti LGBTQIA nelle manifestazioni sia diventata, in seguito, controversa. D’altra parte, i sindacati di polizia hanno cercato di accentuare ulteriormente le divisioni in seno alle contestazioni sociali, utilizzando appunto l’omotransfobia. Inoltre c’è l’intenzione da parte delle forze dell’ordine e del potere giudiziario di isolare maggiormente l@ attivist@ e i collettivi LGBTQIA attraverso lo sfiancamento di chi li aiuta, soprattutto l@ avvocat@, la Ligue Tunisienne des Droits de l’Homme (Lega tunisina dei diritti umani; LTDH) e i collettivi femministi.

Ovvero?

Ad esempio, le persone arrestate, soprattutto se socialmente marginalizzate, come abitanti delle periferie e persone LGBTQIA, sono generalmente trasferite senza nessun preavviso verso altri commissariati di polizia o centri di detenzione. A monte, c’è quindi un lungo lavoro di localizzazione e di identificazione che deve essere fatto all’inizio e, visto l’alto numero di arresti (sono almeno 1700 gli arresti dal mese di gennaio), quello che hanno davanti avvocat@ e militanti è un lavoro estenuante, considerando i mezzi che hanno a disposizione. I costi finanziari sono enormi. Per questo ho lanciato un crowdfunding per sostenere l’associazione Damj.

Cosa possono fare le ONG per i diritti umani all’estero, in particolar modo coloro che supportano la causa delle persone LGBTQIA?

Possono denunciare la repressione, ma anche fare pressione sui propri stati, in modo che le loro politiche estere cambino radicalmente. Gli stati membri dell’UE partecipano in diversi modi all’oppressione delle persone LGBTQIA in Tunisia. Ad esempio, il mantenimento del debito del paese rende impossibile la redistribuzione verso i ceti meno abbienti, di cui fa parte la maggior parte delle persone LGBTQIA.

Inoltre alcuni paesi dell’UE forniscono armi al paese: recentemente la Francia ha venduto alla Tunisia dei carri armati, che vengono utilizzati contro i manifestanti. Le ONG straniere possono esigere l’annullamento del debito della Tunisia e il blocco della vendita di armi. Infine possono richiedere l’apertura delle frontiere dell’UE in modo che le persone le cui vite sono in pericolo, per motivi politici ed economici (essendo l’economia un fatto politico), possano fuggire.

Stefano Duc
©2021 Il Grande Colibrì
immagini: elaborazioni da Gwenael Piaser (CC BY-NC-SA 2.0) / da M.Rais (CC0) / da pxhere (CC0) / Il Grande Colibrì / da ouss94 (CC0)

Leave a Reply