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L’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) ha un compito: guidare e coordinare le azioni internazionali di protezione dei rifugiati. La ricerca di soluzioni efficaci è il suo principale obiettivo. Ha inoltre l’intento di risolvere la questione a livello mondiale. La Nuova Zelanda, in qualità di membro dell’ONU, si occupa di realizzarne il programma, giocando un ruolo importante nella gestione del fenomeno. Questo paese è una delle 37 nazioni nel mondo che partecipano al programma di reinsediamento delle persone rifugiate: ne accoglie mille all’anno e, dal 1987, il governo stabilisce un programma nazionale annuale.

Il processo è lungo e complesso. La persona richiedente asilo necessita di essere in una nazione diversa da quella di origine e deve fare domanda per ottenere lo status di rifugiata. Quando quest’ultimo viene riconosciuto, la persona dev’essere accettata. È un iter complicato, frustrante e faticoso. Prima dell’arrivo, la Nuova Zelanda provvede a dare informazioni generali sulla sua cultura, sulla sua conformazione geografica, sulla realtà della vita nel paese, aiutando i potenziali rifugiati a gestire le proprie aspettative.

L’arrivo in Nuova Zelanda

All’arrivo, le persone vivono nel Mangere Refugee Resettlement Center (Centro di reinsediamento per rifugiati di Mangere; MRRC), a sud di Auckland, per alcune settimane. L’MRRC è gestito dall’ufficio dell’immigrazione, che lavora in partnership con altre organizzazioni governative e non governative. Il programma punta a costruire una buona base sociale e a sviluppare resilienza e capacità di adattamento, necessarie per iniziare una nuova vita. Nel centro si vive in contatto con tante culture e la comunicazione prevede l’apprendimento della lingua inglese. È un piccolo mondo che riflette il mondo neozelandese. Sicuramente è un “campo” molto differente da quelli europei. Molte delle questioni pratiche, tra cui il trovare un’abitazione, l’apertura del conto corrente bancario e la gestione dei sussidi e del denaro, vengono completate.

Quando il programma viene terminato, le famiglie si trasferiscono in una delle sei regioni (Auckland, Waikato, Manawatu, Wellington, Nelson e Dunedin). La destinazione viene scelta in base alla presenza o meno della comunità del paese di provenienza. È importante sottolineare che ai rifugiati accettati dalla Nuova Zelanda viene data la residenza permanente, garantendogli gli stessi diritti all’educazione, alla salute, al lavoro e al welfare. E dopo cinque anni i rifugiati avranno la possibilità di chiedere la cittadinanza.

Vivo a Wellington, la capitale, da circa 10 mesi e tra gennaio e febbraio ho frequentato il corso della Croce Rossa per diventare volontaria di supporto alle famiglie rifugiate. L’organizzazione crea delle piccole squadre di tre/quattro volontari, affiancate da team di professionisti del settore educativo e linguistico-culturale. La squadra è formata da Natalie*, una signora di origine inglese, da Kate*, una studentessa universitaria kiwi (termine informale che indica gli abitanti della Nuova Zelanda), e da me, educatrice italiana.

nuova zelanda lgbt

La famiglia di Edna

La famiglia è colombiana ed è composta da Edna*, una ragazza di 24 anni incinta di 8 mesi e mezzo, e da suo figlio, Juan*, di 5 anni. Sono due persone che parlano solo la loro lingua madre. Sono atterrati il 22 maggio. Per l’occasione abbiamo cucinato il primo pranzo e controllato che la casa fosse in buone condizioni. Il primo incontro è stato interessante, a volte complicato… e io, con il mio spagnolo arrugginito, ho provato a entrare in relazione con loro. Alla fine, è andata bene!

La casa, ubicata in una zona residenziale della capitale, è distante dal centro cittadino. La prima impressione di Edna è stata negativa: si è sentita subito lontana da tutto. Le giornate erano occupate da appuntamenti medici, burocratici e organizzativi. Bisognava andare avanti, anche perché, nel giro di una settimana, l’argomento principale è diventato il parto imminente. I professionisti della Croce Rossa desideravano avere un piano.

Problemi interculturali

Un incontro andato male con l’ostetrica, la comunicazione interculturale che non funzionava, le fatiche di Edna e le sue reazioni emotive (che capivo), la fiducia che si stava costruendo piano piano, le frasi kiwi “andrà tutto bene” e “starai bene”, hanno giustificato una mail molto lunga che ho inviato al team della Croce Rossa. Ho sottolineato le complicazioni e le complessità, evidenziando quanto fosse fondamentale leggere i comportamenti con una lente culturale. La cultura italiana è vicina alla cultura latina. Noi piangiamo e ci emozioniamo, ci arrabbiamo e ci indigniamo sicuramente in modo più visibile rispetto alla cultura inglese o kiwi. Siamo empatici e legati alle sensazioni. E l’eccellente team della Croce Rossa non aveva ragionato in termini emotivi, solo pratici.

Così è stato proposto un incontro. L’idea era, ancora una volta, capire cosa fare nel momento del travaglio, ma sono uscita da quell’incontro un pochino svuotata: non avevamo raggiunto un punto comune. Per fortuna tutto si è svolto in modo differente da quanto ci potessimo immaginare.

donna latina incinta

Una nuova vita, finalmente

Lo stesso giorno, verso le 14, ci siamo tutti incontrati nell’ufficio di Work&Income (un servizio legato al ministero dell’interno). Eravamo nella sala d’attesa e Edna mi dice, rispondendo alla mia solita domanda “come stai?”, che quella mattina, in doccia, era riuscita, con due dita, a sentire la testa della bambina (sì, è una femmina) e che aveva dei dolori come contrazioni. Allarme. Si è subito deciso di andare all’ospedale, proprio dall’altra parte della strada: che fortuna, eh! E, dopo qualche ora, ci confermano che la ragazza deve rimanere in ospedale per la notte, perché la nascita è imminente. Hanno indotto il parto e Yamile* è nata alle 4 di mattina del 31 maggio.

Durante il travaglio, la futura mamma cantava e mi raccontava cose di sé, delle sue storie d’amore in Colombia. È una ragazza bisessuale con una storia complicata e violenta, che ha voglia di iniziare una nuova vita. Quella notte ho assistito al parto ed è stata un’esperienza incredibile. Abbiamo lavorato in team, tutte insieme per Edna e la sua famiglia.

Vulnerabilità svelate

Adesso Yamile ha un mese. In queste settimane abbiamo, come piccola equipe, deciso di iniziare un percorso di accompagnamento all’indipendenza. E sono emerse, nuovamente, delle complicazioni. Sono cambiate alcune dinamiche. Edna prova ad allontanarmi e poi ad avvicinarmi. Ritiene che io la notte del parto abbia superato il confine della confidenza e ora probabilmente prova vergogna. Poi si scusa per il suo comportamento. È altalenante, con me e con le altre volontarie. Vive su un’altalena emotiva. Forse, come suggerisce un’amica, “essere viste nella propria vulnerabilità a volte ci fa sentire in balia e alla mercé degli altri, come se avessimo perso un pezzo di noi e l’avessimo dato all’altra persona, ora in controllo e in grado di vedere parti di noi che fino a poco prima erano protette”.

Qualsiasi cosa succederà avrà importanza nell’ottica della crescita professionale e umana, come potenziale per riflettere sul futuro e sulla profondità e importanza dei rapporti umani. E se “è un superpotere essere vulnerabili”, la capacità di gestire e di affrontare le proprie fragilità fa parte di un processo lungo e delicato. Ogni persona ha la propria storia da portare nello zaino. La resilienza di questa ragazza, la sua forza e la sua determinazione, sono sorrette da un paese che ha le risorse per permettere l’inizio di una nuova vita. Chiunque merita un briciolo di felicità. Ovunque. Io credo ancora in un possibile cambiamento.

E adesso sono qui / Dove sono possibili cose impossibili.

Giulia Carloni
©2019 Il Grande Colibrì
foto: elaborazione da Pedro (CC BY 2.0) / Il Grande Colibrì / elaborazione da Claudia Barbosa (CC0)
* I nomi sono stati modificati.

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