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Le condizioni precarie e pericolose in cui versano le persone LGBTQIA+ (lesbiche, gay, bisessuali, trans, queer, intersex e asessuali) rifugiate nel campo di Kakuma in Kenya non riescono a migliorare e ci troviamo nuovamente a parlarne per denunciare questa terribile situazione, ancora paurosamente fuori controllo. Lo scorso anno denunciammo il suicidio di un rifugiato gay e lo stupro di una donna lesbica, mentre a marzo si è verificato l’omicidio di un ragazzo omosessuale a seguito di un incendio doloso.

Una situazione esplosiva

Lə rifugiatə LGBTQIA+, nonostante siano statə spostatə in un blocco apposito, chiamato “Blocco 13”, continuano a essere bersaglio di ogni tipo di discriminazione e violenza da parte di altri rifugiati che abitano l’enorme campo di Kakuma: ad agosto è avvenuto il quarto incendio doloso registrato nel 2021.

Un rapporto appena uscito, redatto dall’Organization for Refuge, Asylum & Migration (Organizzazione per i rifugiati, l’asilo e le migrazioni; ORAM) e dalla Rainbow Railroad (Ferrovia arcobaleno), testimonia in maniera abbastanza precisa ciò che sta accadendo a Kakuma. Sono statə intervistatə, oltre a 18 testimoni chiave (tra cui rifugiatə LGBTQ, leader religiosə e rappresentanti di varie comunità e organizzazioni di rifugiatə), 58 rifugiatə: oltre il 90% di loro riferisce di aver ricevuto attacchi verbali e l’83% di essere statə aggreditə fisicamente (tra loro, il 26% ha subito violenze sessuali). Tuttə lə intervistatə trans hanno riferito aggressioni fisiche e il 67% anche violenze sessuali.

Rifugiatə abbandonatə

Risulta inoltre difficoltoso l’accesso a servizi di base come quelli sanitari e ai servizi di formazione e professionali, con la conseguenza di non potersi sostenere attraverso il lavoro. Lə rifugiatə spiegano addirittura di preferire l’ospedale della città rispetto a quelli del campo, poiché lì vengono chiamatə “shoga” (termine kishwaili dispregiativo per riferirsi all’omosessualità) e gli viene esplicitamente detto di andarsene all’ospedale esterno.

donna nera violenza razzismoL’88% di chi ha subito discriminazione e violenza dichiara di non aver ricevuto aiuto dalla polizia. Un richiedente asilo ugandese racconta che quando è andato dalla polizia del campo per denunciare una discriminazione, gli è stato risposto che erano stanchi di avere a che fare con gli omosessuali e che doveva tornare nel suo paese. Tra l’altro gli attacchi non si limitano solo alle persone LGBTQIA+, ma anche alle loro famiglie, compresi i bambini.

All’interno del Blocco 13 la comunità LGBTQIA+ è riuscita a fare gruppo, ad affermare il suo diritto a esistere e a esprimersi attirando l’attenzione nazionale e internazionale per ricevere aiuti esterni e rendere noto cosa sta succedendo a Kakuma. Quando è scoppiata la pandemia a marzo 2020, All Out, in collaborazione con l’African Human Rights Coalition (Coalizione africana per i diritti umani) e la Refugee Coalition of East Africa (Coalizione delle persone rifugiate dell’Africa orientale), ha lanciato una raccolta fondi per sostenere lə rifugiatə LGBTQIA+. Diverse organizzazioni LGBTQIA+ internazionali e keniote cercano come possono di dare aiuti finanziari e ripari e di diffondere le loro denunce.

UNHCR sotto accusa

Il Kenya è l’unico paese della regione che concede l’asilo alle persone LGBTQIA+ (anche se nel paese l’omosessualità rimane un crimine), di conseguenza il loro numero cresce rapidamente. È quindi assolutamente urgente trovare una soluzione, comprendere i loro bisogni ed elaborare modalità sicure di alloggio ed erogazione dei servizi. Ricordiamoci che i campi profughi non possono e non devono diventare soluzioni permanenti.

Ad aprile 2021 il direttore esecutivo di Amnesty International Kenya, Irungu Houghton, individuava l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) e il governo del Kenya come i principali responsabili della mancanza di sicurezza nel campo. In effetti lə rifugiatə denunciano un forte disinteresse da parte dell’Alto Commissariato.

ghana abbraccio gay neriA questo proposito Gilber Kagarura, attivista gay ugandese fuggito dal campo e momentaneamente nascosto, dichiara che il rapporto di ORAM non fa altro che confermare quello che i rifugiati denunciano da tempo e che al suo interno mancano soprattutto le cause e le colpe degli incidenti. Kagarura accusa con forza l’UNHCR, incolpandolo di aver creato una situazione di intimidazione per cui lə rifugiatə LGBTQIA+ non denunciano ciò che subiscono per paura di non essere reinsediatə.

In una dichiarazione congiunta, accompagnata dall’hashtag #freeblock13kakuma (Liberiamo il Blocco 13 di Kakuma) e rivolta all’UNHCR, Kagarura e Victor Mukasa (ex rifugiato gay ugandese e difensore internazionale dei diritti umani) denunciano la terribile situazione nel campo e il travisamento da parte dell’UNHCR delle richieste fatte a gran voce dallə rifugiatə LGBTQIA+, viste come un tentativo per ottenere un rapido reinsediamento e assistenza finanziaria dall’esterno.

Soluzioni urgenti

Come evidenzia anche il rapporto quando si rivolge al Segretariato degli affari dei rifugiati del Kenya, sarebbe utile velocizzare l’ottenimento dello status di rifugiatə per migliorare le condizioni delle persone LGBTQIA+. Attualmente le norme prevedono una lunghissima trafila burocratica che può durare anche cinque anni. All’interno del campo l’UNHCR e il governo keniota devono urgentemente elaborare servizi di protezione corretti per la comunità LGBTQIA+, mentre i governi dei paesi di reinsediamento devono accelerare questo processo e bisogna assolutamente garantire che lə richiedenti asilo LGBTQIA+ vengano reinsediatə in paesi sicuri. Intanto continuiamo a seguire l’hashtag #freeblock13kakuma e a diffondere le denunce dellə abitanti del campo.

Situazioni come queste ci fanno capire quanto la vita per le persone LGBTQIA+ nei campi profughi sia altamente pericolosa e difficile, e quanto la soluzione di corridoi umanitari appositi per questa comunità, tanto decantata soprattutto in situazioni emergenziali (come quella recente dell’Afghanistan, per esempio), sia, oltre che difficilmente attuabile, anche molto pericolosa.

 

Ginevra Campaini
©2021 Il Grande Colibrì
immagini: Il Grande Colibrì / elaborazioni da Matthew Henry (CC0) / da Philip Boakye (CC0)

 

Ginevra Campaini: “Mi chiamo Ginevra e non sopporto gli stereotipi delle categorie maschile e femminile. Scrivo per imparare, capire e condividere quello che succede a me e alle persone LGBT+ nel mondo” > leggi tutti i suoi articoli

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