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Kis Keya è un’artista belga a tutto tondo. Nel 2017 ha lanciato il progetto “Extranostro” una webserie afroqueer in lingua francese per rendere più visibile, sul piccolo e grande schermo, le minoranze etniche che compongono la comunità LGBTQIA (lesbiche, gay, bisessuali, trans, queer, intersex e asessuali), specialmente quella afrodiscendente, e lottare contro l’omofobia all’interno delle famiglie nere in Africa e in Europa. Il Grande Colibrì l’ha intervistata e vi invita a partecipare al crowdfunding su KissKissBankBank.

Ti definisci artista. Puoi dirci un po’ qual è stato il tuo percorso?

Mi definisco pittrice e regista. Ho iniziato con l’arte plastica, ma poi mi sono dedicata di più alla pittura. Oltre a questo ho fatto principalmente dei film di finzione. Prima della serie ho realizzato diversi cortometraggi sperimentali, di tipo poetico, nei workshop di cinema o da sola. In seguito ho fatto tre film di finzione che duravano tra i 24 e i 26 minuti, per i quali ho veramente scritto degli scenari. Dopodiché mi sono lanciata nella realizzazione della serie “Extranostro”. All’inizio ero partita con l’idea di realizzare un lungometraggio, ma poi ho cambiato idea e mi sono lanciata in questo progetto di webserie.

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E come mai hai scelto questo format?

Inizialmente, la mia idea era quella di fare un lungometraggio sull’omosessualità e l’omofobia nelle famiglie nere. La trama sarebbe stata un po’ drammatica visto che i protagonisti avrebbero condotto una doppia vita, non avendo ancora fatto il proprio coming out. La realizzazione di un lungometraggio può impiegare anni e, mentre lavoravo su questo progetto, vedevo sui social dei video e delle notizie su fatti di omofobia nelle famiglie nere, in Africa come negli Stati Uniti, fino a quando non lessi di un padre che aveva sparato in testa al figlio di 12 anni perché omosessuale. Quello fu lo shock di troppo.

Bisognava agire al più presto, e avevo bisogno di un mezzo più veloce da mettere in piedi e da diffondere, perché con un film d’autore il rischio è che finisca in un festival o solamente in alcuni cinema, raggiungendo quindi un pubblico piuttosto ridotto. Spesso, in Europa, non ci rendiamo conto che in molti paesi è più complicato andare al cinema che vedere un film su Internet. Per cui mi sono detta che serviva un mezzo di diffusione di più ampio raggio, perché c’è un lavoro di educazione da fare nelle famiglie e nel pubblico affinché prendano coscienza dell’esistenza delle persone LGBTQIA razzializzate. Inoltre quest’ultime, specie le più giovani che vivono in certi paesi africani, non hanno un modello di riferimento in cui identificarsi o qualcuno con cui parlare.

Infine, una serie permette l’evoluzione della scrittura con l’attualità, i fatti di cronaca e il feedback del pubblico, e questo è molto interessante.

Come è nato il titolo “Extranostro”?

Inizialmente, sono partita alla ricerca di vari suoni. Una delle prime parole che mi sono venute in mente è stata “extravaganza”, la quale però è molto utilizzata. Volevo tuttavia conservare una parte di questa parola per dar luogo a qualcosa che avesse, etimologicamente, il senso di “estremo” o “al di fuori” (extra) e di “nostro mondo” (nostro). “Extranostro” rimanda al tema della serie, ovvero all’idea di persone che fraternizzano, o meglio sororizzano, e che rivendicano la loro identità e la loro bellezza. Inoltre, se uno va su internet e cerca Extranostro, otterrà solamente la webserie come risultato, visto che non esiste nient’altro con quel titolo.

In un’intervista rilasciata alla rivista francese LGBTQIA Têtu, parli della scrittura “all’americana”. Come si è svolta la scrittura dello scenario? Hai seguito quel modello di scrittura?

Normalmente i copioni delle serie sono scritte da varie persone. Negli Stati Uniti però è davvero un ampio gruppo di persone che scrive il copione e mi piacerebbe andare verso quel modello: se lo scenario dei primi tre episodi l’ho scritto da sola, per la prima stagione invece sto allargando la scrittura del copione, coinvolgendo altre persone. L’idea è quella di avere delle persone che abbiano delle competenze diverse: ad esempio, uno può essere specializzato nella scrittura del dialogo, un altro nella struttura del testo.

Ciò che mi importa è che ci siano nel gruppo dei profili che rappresentino i personaggi della serie. Ho avuto questa voglia precisa quando venne rivelato un particolare del pool di scrittura della serie “Orange is the new black”: non so se da allora le cose siano evolute, ma in quel periodo non c’era nessuna donna razzializzata. Erano tutte donne bianche, il che spiega anche perché la serie sia così piena di clichés. Per me dunque è importante che l’équipe di scrittura e di produzione sia la più rappresentativa possibile, a mano a mano che si sviluppa il progetto.

Tornando alla scrittura “all’americana”, mi piace il suo lato ritmato. Le scene sono meno lunghe e sono ritmate dai punchline [battute d’impatto; ndr]. Sono più ispirata dalle serie americane che da quelle francesi o europee.

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La webserie si basa sulla comunità afroqueer di Bruxelles. Data l’omofobia all’interno delle comunità afrodiscendenti, come hai fatto a trovare degli attori neri per interpretare i ruoli dei personaggi di “Extranostro”?

Il casting non è stato facile. A causa dell’omofobia nelle famiglie afrodiscendenti, molti attori non hanno voluto interpretare il ruolo di persone LGBTQIA, che lo fossero o meno nella loro vita privata. Infatti negli annunci non precisavo che gli attori dovessero essere LGBTQIA… e qui si potrebbe aprire un altro dibattito! Ciò che specifico, anche adesso che sta continuando il casting, è che si tratta di un progetto LGBTQIA e che quindi è importante essere LGBTQIA-friendly. Quindi sì, è stato complicato perché bisognava trovare degli attori neri che fossero disposti ad interpretare quei ruoli e che corrispondessero ai personaggi. L’omofobia è stata un freno nel casting, ma mi dico anche che è proprio a causa di quel freno che faccio questa webserie.

Per il progetto pilota, il casting è partito inizialmente dal Belgio, per poi coinvolgere anche la Francia. Ce l’ho fatta perché il cast non comportava tanti personaggi. Adesso che sto preparando gli episodi della prima stagione, i quali dureranno ognuno più di 25 minuti, ho esteso il casting oltre i confini del Belgio e della Francia perché ci sono molti personaggi e il cast non è ancora al completo.

Hai un personaggio preferito?

Ne ho tre. Il primo è Bibiche, il protagonista, in cui metto tutto il meglio della mia scrittura. Poi c’è Quentin: è un personaggio non razzializzato che si svilupperà ulteriormente in seguito. È così dolce! Credo sia il mio personaggio preferito: è una cosina fragile e lo sarà ancora di più in seguito. Inoltre, l’Afroqueerness, il locale che Bibiche frequenta, sarà sempre più importante nella trama. Di conseguenza, il gestore del locale, che vediamo rapidamente in un episodio, assumerà un’importanza maggiore. Infine, senza svelare troppo, nella prima stagione ci sarà una ragazza asiatica molto vivace. Per me è importante che ogni personaggio abbia un’individualità, poiché non esiste “il gay nero” o “la lesbica nera”.

Qual è stata la reazione della comunità afroqueer e delle loro famiglie?

Non ho avuto nessun riscontro da parte delle famiglie. Invece da parte degli spettatori afrodiscendenti e LGBTQIA ho avuto un riscontro molto positivo, tanto al momento delle proiezioni in anteprima, quanto su internet. Molti mi hanno detto o scritto: “Che bello! Lo potrò far vedere ai miei” oppure: “Grazie a questa serie, ho potuto fare il mio coming out con i miei genitori”.

Il fatto che qualcuno abbia detto: “Lo mostrerò ai miei” o: “Manderò il link alla mia famiglia in Costa d’Avorio” indica che l’obiettivo è stato raggiunto. Essendo una serie leggera, ma che racconta comunque la realtà così com’è, gli spettatori la possono utilizzare come strumento per aiutare le proprie famiglie a capire o per lo meno ad aprirsi, senza essere scioccate. Questo è uno degli obiettivi principali ed è stato raggiunto. Sono davvero soddisfatta.

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E come ha reagito il resto della comunità LGBTQIA?

Ci sono state delle apprensioni prima delle proiezioni del progetto pilota. Siccome il progetto si finanzia grazie al crowdfunding, bisogna prima mobilitare la gente e all’epoca non c’erano immagini da mostrare. Per cui alcuni LGBTQIA bianchi mi domandavano: “In che modo questa serie mi riguarda?”. Una volta una ragazza bianca e lesbica mi ha detto, parlando del fatto che il protagonista è un uomo gay e nero, che la serie non la riguardava. Altri invece mi dicevano che era una serie di “doppia nicchia“, visto che tratta di persone razzializzate e LGBTQIA. Alla fine, però, tutti hanno apprezzato “Extranostro” allo stesso modo, neri e bianchi, LGBTQIA ed etero.

Avendo dei personaggi LGBTQIA razzializzati, un grande tema di “Extranostro” è quello dell’intersezionalità: che ne pensi?

L’intersezionalità è il gran tema di questo periodo. Nel caso di “Extranostro”, questa questione si presenta come frutto della mancata conoscenza di questa categoria sociale in particolare. Infatti abbiamo, da una parte, le famiglie africane che dicono “L’omosessualità non esiste da noi” e, dall’altra, i bianchi che non pensano che possano esistere delle persone LGBTQIA razzializzate. In mezzo troviamo una persona LGBTQIA razzializzata di cui nessuno sa quasi nulla.

L’unico esempio visibile di un personaggio LGBTQIA razzializzato nei media lo troviamo negli Stati Uniti: è il personaggio del miglior amico nero, gay, divertente e ottimista. Nella maggior parte dei casi, però, non è un vero personaggio, perché serve solo a far vedere quanto si è aperti di mente. Con un amico LGBTQIA e nero, la produzione prende due piccioni con una fava: il protagonista del film passa per uno mentalmente aperto, mentre il casting director cercherà solo un attore invece di due. Ho fatto l’esempio del nero, ma vale la stessa cosa per il personaggio LGBTQIA di origine asiatica o mediorientale…

Nella webserie parto dal punto di vista afrodiscendente, ma, già che ci sono, coinvolgo anche altre categorie etniche, perché è la stessa lotta. A mano a mano che si svilupperà la serie, ci saranno dei personaggi di origine asiatica e mediorientale.

E così rilanci il dibattito sull’importanza della rappresentazione delle minoranze nei media…

Sì, la serie vuole dare visibilità alle minoranze etniche LGBTQIA. Tutti hanno bisogno di essere rappresentati e quindi legittimati. Spesso si pensa che bisogna avere un profilo problematico, o provenire da una minoranza, per aver bisogno di visibilità mediatica. In realtà non è così: tutti ne abbiamo bisogno. Solo che alcune categorie di persone sono visibili nei media a prescindere.

In Europa, se sei bianco, di età media, eterosessuale e “normodotato”, ti vedi sempre in tivù e nei cartelloni pubblicitari. Se appartieni a quella categoria, sei sempre rappresentato. Invece, quando appartieni a categorie sociali marginalizzate, non hai questa visibilità mediatica, per cui ti senti meno legittimato. Questa sensazione peggiora quando non hai, lì vicino, qualcuno con cui parlare e in cui identificarti.

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Come mai, nel 2020, è ancora così difficile vedere dei personaggi LGBTQIA razzializzati al cinema?

Il cinema è un’industria, è un business, il che non è una brutta cosa in sé. Questo però significa che c’è gente che investe, sperando di trarne un profitto. Questa gente che investe parte dal principio che certe storie non sono “bankable” [redditizie, ndr] perché non porterebbero il pubblico al cinema. Quindi, per invogliare il pubblico ad andare al cinema, tutti devono potersi identificare nel protagonista del film… e in quale figura tutti si identificano? Nell’uomo bianco, cis-eterosessuale e “normodotati”.

Inoltre bisogna tener presente che il cinema dipende da una specie di catena di montaggio: ciò che vediamo sullo schermo è il prodotto finito, ma se dietro non c’è qualcuno che scrive lo scenario, qualcuno che produce e monta, beh… non c’è nulla. Per cui, se non ci sono uno scenario che parla di personaggi razzializzati LGBTQIA e qualcuno che vuole investire nel progetto, non ci sono né attori né film.

Ci sono differenze tra Europa e Stati Uniti?

Negli Stati Uniti c’è stato un cambiamento, non tanto perché sia un paese meno razzista o omofobo, quanto perché sono emerse delle donne, degli afroamericani e delle persone LGBTQIA come produttori, sceneggiatori e registi. In Europa, invece, gli investitori preferiscono investire in quei film che rassicurano il pubblico perché rappresentano delle realtà conosciute, come nel caso del nero della banlieue in Francia o del sans-papier nel cinema belga. È triste doverlo dire, ma i produttori e le persone che hanno il potere decisionale in ambito culturale, quasi tutti bianchi, non sono pronti a lasciare i neri scrivere ciò che vogliono.

Faccio un esempio: se dovessi presentare un progetto di lungometraggio in cui racconto che mio padre aveva quattro mogli, che sono stata infelice, rapita e vittima di infibulazione, e che nel film ci saranno dei bei paesaggi africani, probabilmente troverei dei fondi. Ma se invece volessi fare un film sulla vita contemporanea in un contesto multiculturale, in una grande città africana o europea, e parlare degli stessi temi di cui parla la mia connazionale bianca, per così dire non ne avrei il “diritto”. Certe volte mi chiedo se, nell’inconscio collettivo bianco, tutti i neri hanno dei problemi. E purtroppo la risposta è “sì”.

kis keya extranostro afroqueerNella tua intervista a Têtu, parlando di rappresentatività delle minoranze, affermi: “Le persone coinvolte devono produrre” film. Quali consigli daresti ai giovani registi o artisti per far conoscere le loro opere in un mondo in cui è ancora complicato vedere delle minoranze razzializzate LGBTQIA in televisione o al cinema?

Bisogna lanciarsi e fare tutto da soli, anche se questo significa svolgere più mestieri. Il crowdfunding, ad esempio, mi sottrae molto tempo alla creazione. Purtroppo, però, non posso fare altrimenti. Tuttavia ne vale la pena: anche se non tutti la vedranno, su internet c’è una serie francofona che parla di persone afroqueer e chi la vedrà forse avrà voglia di creare la sua propria serie. Internet in questo può essere un prezioso aiuto, perché ti permette di realizzare dei piccoli progetti anche con la tua webcam. Non devono per forza essere delle webserie. Possono essere delle interviste o dei reportage. L’importante è non scoraggiarsi.

Io, che sono molto perfezionista, voglio essere al massimo livello dal punto di vista della qualità cinematografica, ma so di non aver raggiunto quel livello perché non ho i fondi. Tuttavia bisogna farlo, a prescindere dalla buona o pessima qualità del prodotto finale, perché siamo ancora tra i pionieri, a uno stadio in cui la gente inizia ad abituarsi a vedere e ad accettare delle persone razzializzate e/o LGBTQIA alla televisione o al cinema. L’importante è che la gente veda e sappia che esistono delle persone LGBTQIA razzializzate. E più sono i format, più bisogna occupare spazio.

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Le riprese della prima stagione inizieranno il prossimo aprile. Com’è andato il crowdfunding a questo giro?

Stavolta è stato più lento rispetto al crowdfunding per il progetto pilota. A causa del coronavirus e del confinamento, molti di quelli che lavoravano nel settore culturale non hanno più un lavoro, per cui è più difficile per la gente fare delle donazioni. Ma rimango positiva. Spero di poter partire con le riprese ad aprile 2021, non voglio rimandare ulteriormente, altrimenti si allungherebbero troppo i tempi.

Comunque, siccome il crowdfunding stavolta è più lento, continuo ancora a mobilitare le persone. Ho ancora qualche difficoltà a far conoscere la serie. Anche sul web non è facile uscire dalla propria bolla. L’obiettivo principale della serie è aiutare le persone LGBTQIA ad accedere alla webserie. Per cui, chi è in contatto con una comunità LGBTQIA di un paese o di un altro, chi può diffondere il link nella propria rete, è benvenuto a farlo. Anche perché, siccome il cinema è un’industria, più spettatori ci sono, più gli investitori saranno interessati a finanziare “Extranostro”.

Stefano Duc
©2020 Il Grande Colibrì
immagini: ©Kis Keya per Il Grande Colibrì

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