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Perché i censori in Turchia potrebbero presto decidere cosa ci è permesso vedere“: è davvero un bel titolo (intrigante, senza tracce di sensazionalismo) quello dell’inchiesta di Spiegel Online dedicata alle piattaforme di streaming e alle loro strategie di espansione commerciale. Mentre nel mondo ci si strappa i capelli per il presunto pericolo della “cancel culture” (le persone a cui è sempre stata negata una voce ora pretendono di stabilire come dobbiamo parlar di loro, signorə miə!), ben poca attenzione viene rivolta ai colossi della cultura dell’intrattenimento e al rischio ben più reale della (auto)censura imposta per compiacere i peggiori regimi reazionari del mondo.

Non seccare i dittatori

Qualche esempio? Nel 2019 Amazon Prime ha ritirato dalla sua piattaforma in India il primo episodio della quinta stagione di “Madam Secretary” (Signora ministra), perché, parlando delle violenze di massa degli estremisti indù contro la minoranza musulmana, era poco elegante proporlo nel paese governato da Narendra Modi, il politico che ha sempre difeso e alimentato quelle violenze. Allo stesso modo nel 2020 Netflix ha ritirato un episodio di “Designated Survivor” (Sopravvissuto designato) perché appariva un politico turco particolarmente dispotico: meglio non offendere il presidente Recep Tayyip Erdoğan, che dispotico lo è tanto, ma a cui non garba molto che glielo si venga a dire.

Certo, potremo dirci che la censura colpisce singoli episodi, a patto di non sapere che nel 2020 Netflix ha cancellato del tutto la realizzazione della serie “Şimdiki Aklım Olsaydı” (Se fossi la mia mente adesso): era previsto un personaggio secondario gay e come sappiamo a Erdoğan, oltre alle critiche, non garbano neppure le persone omosessuali. Potremmo allora dirci che la censura si limita a qualche paese o che qualche piattaforma resiste, a patto di far finta di non sapere che fine ha fatto “The Dissident”, il documentario di Bryan Fogel sull’omicidio del giornalista saudita Jamal Khashoggi: tutti i colossi dello streaming hanno deciso di non includerlo nei loro pacchetti, per evitare di rattristare il principe Mohammad bin Salman, cioè il mandante di quell’omicidio.

mohammad bin salman arabia saudita

È il mercato, bellezza

Le piattaforme, d’altra parte, fanno il loro mestiere: con una mano brandiscono la bandiera della libertà e della diversità, con l’altra si inchinano al volere dei dittatori. Lo fanno per pura malvagità? No, lo fanno per interesse: lo scopo è massimizzare sempre gli introiti, a ogni costo. Come spiega bene lo Spiegel, Netflix, Amazon, Disney e Apple hanno proposto film e serie più inclusive per riuscire a sfruttare meglio ogni nicchia del pubblico statunitense, compresi i gruppi sociali che prima erano esclusi. Ora, però, il mercato statunitense è saturo e il futuro è rappresentato da nuovi mercati in cui, ahinoi, bisogna fare i conti con regimi autocratici che vogliono imporre le loro regole, e che ci riescono benissimo.

Si sta drammatizzando? Il pericolo non è reale? Sarebbe bello pensarlo, ma se osserviamo quello che è successo a Hollywood c’è poco da stare allegri: qual è l’ultimo grande film che avete visto che anche solo accenni alla situazione dei diritti umani in Cina, alla repressione del Tibet o ai campi di concentramento di massa in cui sono rinchiusi milioni di uiguri? Il cinema ha semplicemente deciso di cancellare alcuni dei più importanti problemi della contemporaneità per non mettere in pericolo i profitti generati dal mercato cinese.

E se pensiamo che i grandi introiti delle piattaforme di streaming provengono da prodotti locali che riescono a diventare fenomeni globali, capiamo quanto sia reale il pericolo che, pian piano, l’autocensura prevalga: forse questo meccanismo è tra le spiegazioni del fatto che, per la prima volta dal 2013, l’anno scorso è calato il numero di personaggi LGBTQIA (lesbiche, gay, bisessuali, trans, queer, intersex e asessuali) nelle serie TV statunitensi?

Equilibrismi Disney

Se alcuni temi sono spariti o spariranno (niente critiche alla Cina, niente fondamentalisti indù, niente dittatori turchi, per esempio), altri invece è molto probabile che rimarranno, in un contesto in cui, però, le piattaforme svilupperanno sempre di più strategie di accomodamento di cui per ora Disney sembra la più grande maestra. Criticata per la sua storica mancanza di tematiche LGBTQIA, da qualche anno il colosso dell’intrattenimento ha introdotto briciole arcobaleno qua e là, per rifarsi un’immagine inclusiva davanti al pubblico progressista senza scontentare l’audience omobitransfobico.

walt disney minni topolino

Nel 2017 Disney ha annunciato con la grancassa una scena gay in “La bella e la bestia”, versione live action: si trattava solo di un istante in cui si vedevano due personaggi maschili ballare insieme. È stato abbastanza per mandare in solluchero il pubblico omosessuale, ma anche perché la Malesia chiedesse di eliminare la brevissima scena. A questa richiesta, Disney ha rifiutato sdegnata. Ma le cose sono cambiate molto rapidamente, perché un conto è perdere gli introiti modesti dei cinema malesi, ben altro è mettere a rischio i guadagni in stati più grandi o più ricchi.

Nel 2019 il bacio tra due donne in “Star Wars: L’ascesa di Skywalker”, tanto pubblicizzato quanto fuggevole, è stato girato apposta per facilitarne il taglio: a Singapore e negli Emirati Arabi Uniti la Disney ha rilasciato una versione già pronta senza il fotogramma “scandaloso”. E non si è fatta problemi a tagliare, per far contento Vladimir Putin in Russia, i pochi secondi di “Avengers: Endgame” in cui un personaggio del tutto marginale diceva en passant di frequentare altri uomini. Anche “Onward – Oltre la magia”, del 2020, ha seguito la stessa scia: in una micro-scena, senza alcuna rilevanza e pronta a essere sacrificata sull’altare della censura, una poliziotta accennava alla sua “ragazza”, che però è diventata la sorella in alcuni paesi arabi e il partner in Russia e in Polonia.

Silenzi e convenienze

Perché, mentre intellettuali e giornali strillano ogni giorno e in ogni luogo che non possono più dire nulla per colpa della “cancel culture”, dedicano invece così poca attenzione alla cancellazione di alcuni temi nelle serie e nei film più visti al mondo? Forse la richiesta di rispetto delle minoranze è un problema, mentre non lo è la mancanza di rispetto delle maggioranze? Forse è più facile prendersela con qualche attivista trans o nerə che con i giganti del divertimento? Forse si ha paura di perdere ingaggi e pagine di pubblicità di Netflix e compagnia? Sarebbe bello avere qualche risposta, ma con ogni probabilità anche su questo prevarrà l’autocensura, persino tra chi rischia di rimetterci di più, come la comunità LGBTQIA.

Pier Cesare Notaro
©2021 Il Grande Colibrì
immagini: elaborazioni da Abhi Gurav (CC0) / da kremlin.ru (CC BY 4.0) / da herryway (CC0)

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